giovedì 17 dicembre 2015

A Natale regala un libro (ma anche più di uno, volendo)

Buongiorno a tutti i lettori che mi seguono!



Il Natale è alle porte e non vorrete mica fare brutta figura con i vostri amici e parenti scegliendo il regalo sbagliato?! E visto che regalare libri non è mai sbagliato, qui di seguito vi do qualche piccolo suggerimento.



Iniziamo con una classifica a cui tengo molto, perché diciamoci la verità: riscoprire, regalare e leggere i grandi Classici non solo è un piacere, ma è qualcosa che fa proprio bene a noi stessi! E quindi il motto è: #PrenditiCuraDiTeConIClassici

in questo modo:

1) Thérèse Raquin di Emile Zola - intenso, di forte impatto emotivo, solo per stomaci forti. Tinte cupe per una Francia inedita

2) Storia di una caduta di Stefan Zweig - due racconti del grande scrittore austriaco, che racconta i sentimenti e le paure dell'uomo come mai nessuno prima. Consigliati, tendenzialmente, tutti i suoi lavori

3) Umiliati e offesi di Fedor Dostoevskij - colpi di scena, intricate vicende amorose, inquietudine e malattie si intrecciano e si dipanano seguendo ritmi narrativi ora precipitosi ora trattenuti

4) Oblomov di Ivan Aleksandrovic Goncarov - apoteosi della comicità e della disperazione in un unico struggente capolavoro

5) La signorina Else di Arthur Schnitzler - con Else avrete di fronte un personaggio letterario a tutto tondo, dibattuta tra la fanciulla che è ancora e la donna che incomincia ad essere

6) La morte di Ivan Iljìc di Lev Tolstoj - quando la morte diventa personificazione della bellezza su carta

7) La cugina Bette di Balzac - travolgente storia di intrighi e crimini "privati" nello scenario della Parigi borghese di metà Ottocento

8) Lady Susan di Jane Austen - poche pagine irriverenti, ironiche e scoppiettanti in rigoroso stile Austen. Made in England, of course!

9) Il rosso e il nero di Stendhal - grande affresco dell'epoca postnapoleonica e al tempo stesso appassionato romanzo d'amore

10) Canto di Natale di Charles Dickens - poteva mancare il racconto di Natale per eccellenza?



Ebbene, questa è la lista di consigli letterari che mi sento di darvi per quest'anno. Ma ho deciso che no, non finisce qui. Perché di capolavori da scoprire e ri-scoprire è pieno il mondo ed io qualche dritta vorrei darvela anche rimanendo...a casa nostra!
Tutti per uno, uno per tutti con il motto: #NataleInCasa

così (ve ne consiglio almeno almeno una quindicina):

1) Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa

2) La noia di Alberto Moravia

3) La Storia di Elsa Morante

4) Il marchese di Roccaverdina di Capuana

5) Fosca di Iginio Ugo Tarchetti

6) Malombra di Fogazzaro

7) La casa in collina di Cesare Pavese

8) Un amore di Dino Buzzati

9) La madre di Grazia Deledda

10) Racconti di Alberto Moravia

11) Una donna di Sibilla Aleramo

12) Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi

13) Le due zittelle di Tommaso Landolfi

14) Per le antiche scale di Mario Tobino

15) Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi




Quest'anno il ritorno al grande classico, insomma, non ce lo toglie nessuno! Ma, ovviamente, non possiamo tralasciare la nostra amata letteratura contemporanea.
Molti sono i titoli di romanzi, saggi e noir eccellenti usciti nel corso dell'anno, ma io vi darò soltanto qualche piccolo suggerimento e vi rimando a questo link in cui potrete sbirciare tutte le recensioni dei libri che ho apprezzato nell'arco di questi 12 mesi.


Per gli amanti del giallo/thriller/noir consiglio decisamente Anche gli angeli mangiano kebab di Giuseppe Foderaro (Novecento Editore), due intricati misteri da risolvere per l'investigatore assicurativo Sauro Badalamenti, che si muove in una Milano nero come non l'avete mai vista.
Consiglio, inoltre, il thriller d'esordio di Franco Vanni, Il clima ideale (Laurana), in cui ritroverete anche le atmosfere inquietanti dell'ex Jugoslavia degli anni '90, e Silenzi di porpora di Carlo Romano (Falco Editore), thriller spietato e appassionante, una grande scoperta letteraria.

Per coloro invece che amano letture forti e di grande riflessione consiglio Adua di Igiaba Scego (Giunti), l'esordio letterario di Crocifisso Dentello Finché dura la colpa (Gaffi), Cade la terra di Carmen Pellegrino (Giunti, finalista al Premio Campiello 2015), L'invenzione della madre di Marco Peano (minimun fax, Libro dell'Anno di Fahrenheit), Woody di Federico Baccomo (Giunti), Senza paura di Flavio Pagano (Giunti), Gli anni al contrario di Nadia Terranova (Einaudi) e Etica dell'acquario di Ilaria Gaspari (Voland).

Per chi invece vuole immergersi in un'atmosfera completamente letteraria, fatta di librerie belle - meravigliose librerie indipendenti - e di librai altrettanto belli, consiglio Miracolo in libreria di Stefano Piedimonte (Guanda); se all'ambiente letterario volete aggiungerci anche un pizzico di comicità e di avventura sicuramente L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome di Alice Basso fa al caso vostro.

E ancora, se a tutto questo, se a tutti questi bei libri, se a queste splendide librerie, volete aggiungere anche un pizzico di femminilità, vi consiglio vivamente Il figlio maschio di Giuseppina Torregrossa (Rizzoli), un ritorno al meraviglioso stile del Novecento letterario.
E infine, se di donne vogliamo parlare, non possiamo dimenticare l'ultimo romanzo di Marco Proietti Mancini Il coraggio delle madri (Edizioni della Sera) e Le tre notti dell'abbondanza  di Paola Cereda (Piemme).

Ed infine se volete dilettarvi con qualche bel saggio consiglio L'ora di lezione di Massimo Recalcati (Einaudi), Arte e terrorismo  di Luca Nannipieri (Rubbettino), Il bello dell'Italia di Maarten van Aalderen (Albeggi Edizioni) e Costituzione, Stato e Crisi  di Federico Cartelli.



Questi sono solo alcuni dei titoli di romanzi che ho amato, ma qui potrete trovare la lista completa!

Ragazzi miei, non mi resta che augurarvi buon Natale e ringraziarvi per l'affetto con cui mi avete seguito in questi 12 mesi!



Grazie a tutti, buone letture sotto l'albero e ditemi se avete letto qualcuno dei miei suggerimenti e ovviamente se vi è piaciuto e perché! 

Compiti per Natale ne abbiamo?

Buon pomeriggio amici lettori!



Come sapete ogni tanto vi aggiorno su tutti gli articoli pubblicati negli ultimi mesi, e come non farlo ora che è Natale e che posso cogliere l'occasione di suggerirvi qualche buon libro da leggere e da regalare?

Ebbene, bando alle ciance e veniamo a noi! Si comincia! Dove trovate tutte le mie recensioni? Ovviamente qui, ma anche su Sololibri, Ghigliottina e The Fielder.

Qui l'elenco completo:


GHIGLIOTTINA:

- Intervista a Franco Vanni, per parla del suo romanzo d'esordio Il clima ideale (Laurana editore) - genere thriller/noir

- Articolo sul BOOKCITY MILANO 2015 - un mio resoconto con foto e suggerimenti di lettura all'interno

- Intervista ad Olivia Crosio, per parlare del suo ultimo romanzo La felicità non fa rumore (Giunti)



SOLOLIBRI:

- Se tu fossi neve di Eleonora Sottili (Giunti)

- Woody di Federico Baccomo (Giunti)

- Il clima ideale di Franco Vanni (Laurana Editore)

- La sconosciuta di Mary Kubica (Harlequin Mondadori)

- Etica dell'acquario di Ilaria Gaspari (Voland)

- Le tre notti dell'abbondanza di Paola Cereda (Piemme)



THE FIELDER:

- Oltre la scuola austriaca. Bruno Leoni: il libertario italiano di Riccardo Lucarelli (Eclettica edizioni)

- Il bello dell'Italia di Maarten van Aalderen (Albeggi edizioni)



SE QUESTO E' UN LIBRO:

- Pedro Felipe di Emanuele Tirelli (caracò editore)


- Il figlio maschio di Giuseppina Torregrossa (Rizzoli)

- Silenzi di porpora di Carlo Romano (Falco editore)

- Il coraggio delle madri di Marco Proietti Mancini (Edizioni della Sera)


Qui trovate gli ultimi articoli da novembre ad oggi, ma se volete recuperare anche le recensioni dei mesi precedenti basta cliccare qui!

Qui invece trovate tutte le mie video recensioni: Anna Karenina è ancora viva.

Non mi resta che farvi gli auguri di buon Natale e ovviamente...buone letture! 

FATEMI SAPERE COSA AVETE LETTO E SE VI E' PIACIUTO, MI RACCOMANDO!

mercoledì 16 dicembre 2015

"Pedro Felipe":il gusto dolceamaro della vita vera tra Spagna e Italia


“Io sono semplicemente un imbranato, ecco. Un imbranato che pensa”.



Avete mai incontrato nella vostra vita un imbranato che pensa? E avete mai immaginato a come potrebbe comportarsi nella realtà di tutti i giorni? Certo che se si tratta di un imbranato, sicuramente non ne farà una giusta, ma è pur vero che se è uno che pensa forse collezionerà fallimenti ragionati, o quantomeno consapevoli.
Ebbene, l’imbranato in questione è Pedro Felipe Colella, classe 1981, nato in Spagna – la Spagna del Polve, quella intima e polverosa e affascinante che nulla ha a che vedere con la movida delle grandi città – da genitori italiani e protagonista del primo romanzo di Emanuele Tirelli, Pedro Felipe (Caracó, 2014).
Quello che apparentemente potrebbe sembrare il classico Bildungsroman di un autore al suo primo lavoro, in realtà è qualcosa di più. Pedro Felipe è un giovane dal sangue spagnolo e dall’animo italiano che sarà costretto, insieme a tutta la sua famiglia, ad abbandonare il Polve per Milano, all’incirca all’età di sette anni. Il distacco dalla sua terra, dalle sue radici e dai suoi affetti non è dei più semplici, eppure Milano, con l’andar del tempo, non si dimostrerà poi così brutta come appare. Ma questa città – dai colori decisamente più grigi e più cupi rispetto alle gioiose tonalità spagnole – è legata ad un’idea di fondo sbagliata, o meglio, purtroppo non è l’idea ad essere sbagliata, a volte è proprio la vita. Infatti la famiglia Colella deve trasferirsi a Milano perché la nonna materna Alba è malata, il cancro la sta divorando lentamente. Milano è cosparsa di quella malattia che colpirà presto tutta la famiglia, in senso letterale e in senso metaforico: a mano a mano il cancro colpirà nonna Alba, poi si porterà via zia Letizia e nel frattempo avrà modo di insinuarsi negli animi di chi sopravvive, dei genitori di Pedro, dello zio Carlo, della cugina Marta.
È sotto questa invisibile cupola di malessere che, tuttavia, la vita procede, va avanti e lo fa, più o meno, indisturbata: Pedro cresce, prosegue gli studi e si innamora di Claudia, la figlia del Muchacho – il proprietario del bar dove Pedro passa molte ore in compagnia di un’atmosfera che tanto gli ricorda la sua amata Spagna. Spagna in cui Pedro Felipe può finalmente tornare, ora che è grande, che ha terminato l’università e che vuole una famiglia tutta per sé, insieme alla sua bella compagna. Ma sarà proprio il Polve, una volta che i due giovani vi avranno fatto ritorno, a tradire il suo figlio più fedele, il figlio che ha deciso di lasciare una famiglia ferita dalla morte per inseguire il suo sogno di indipendenza, ripartendo proprio dalle radici, dalla memoria e dal passato. La famiglia malavitosa di Don Jaime, infatti, trascinerà Pedro in un sottile e pericoloso vortice di menzogne e silenzi, in cui le parole perderanno il loro significato emotivo, per ridursi a meri ordini da eseguire nel miglior modo possibile.
Quello di Emanuele Tirelli è un romanzo a tutto tondo, pronto ad abbracciare il lettore e a coinvolgerlo nelle avventure di un anti eroe dei giorni nostri. Perché Pedro Felipe non ha nulla di eroico, questo bisogna dirlo: non è il giovane spagnolo che arriva in Italia e stravolge la sua vita alla ricerca del successo, né tantomeno è il coraggioso uomo obbligato a combattere contro pregiudizi e ipocrisie della modernità – che, a volte, di moderno ha ben poco. Pedro, piuttosto, è un sopravvissuto agli eventi naturali della vita, è uno che esiste e resiste, ma se ne accorge solo quando il puzzle che per tanto tempo ha avuto davanti agli occhi inizia a sgretolarsi.
Se il collante di Pedro Felipe è senza dubbio l’ironia, mista ad una sottile ma incisiva carica emotiva che ben si sposa con l’analisi psicologica dei personaggi e di ciò che ruota attorno ad essi, è bene precisare, però, che la base di tutto il testo è sicuramente il mistero: il mistero dell’esistenza, il mistero di come si riesca a rimanere in piedi quando qualcuno se ne va, di come si possa continuare a respirare quando la morte ci schiaffeggia, il mistero di come si sopravvive nonostante tutto.
In queste pagine intrise di ricordi, di emozioni – manifeste o maldestramente celate – e di un passato che continua a modellare il presente di chi lo abita, è la morte che spinge il protagonista, alla fine, a ragionare sulla vita. La morte come dispetto, come ostacolo che blocca e immobilizza:
“Le due morti si erano portate via tutto quanto. Sì, perché le morti non erano state semplicemente un’assenza atroce. Le morti avevano invitato a casa la malattia”.
Pedro Felipe, nel suo percorso di crescita e di maturazione personale, approda soltanto alla fine a questa riflessione, accorgendosi troppo tardi – forse – dei danni che la perdita degli affetti più cari ha causato nell’intimità della sua famiglia. La morte è stata compagna prepotente dell’esistenza di quel piccolo nucleo familiare, ma a volte Pedro è distratto, Pedro guarda ma non vede, e non si accorge che tutto il mondo attorno a lui aveva già avviato il suo processo di distruzione, prima ancora che le sue orecchie avvertissero il rumore assordante del pericoloso silenzio di cui si era circondato.
Ed ecco il secondo punto chiave del romanzo: le parole. Le parole sono strumento fondamentale per l’uomo, con le parole comunichiamo, dimostriamo qualcosa a chi ci ascolta, prendiamo coscienza di quello che siamo. Pedro Felipe ha scelto, invece, la via del silenzio, ha deciso di non rivelare a Claudia una parte importante della sua nuova vita nel Polve, quella in cui si sono intrufolati i malavitosi del clan di Don Jaime. È così che Pedro finisce per essere seppellito dalla sua stessa scelta, quella del mutismo. C’è egoismo in questa volontà di chiudersi in sé, c’è presunzione di credere che tutto andrà sempre per il verso giusto, anche quando le cose un posto sembrano non avercelo proprio.
“Ecco cosa doveva essere successo. In tutti questi anni mi ero straziato. Mi ero storto nel silenzio di quanto invece avrei voluto dire e l’oppressione si stava facendo avanti dopo tutti quegli anni”.
Emanuele Tirelli si rivela autore dell’individuo, scava, ma con garbo ed eleganza, fino a toccare il fondo dell’animo umano: i suoi personaggi contengono vita e morte nello stesso frammento di esistenza, sono defunti che rinascono sotto le nuvole di Milano o sotto il sole del Polve. Il tratto dolcemente teatrale che Tirelli ha conferito al testo è qualcosa di essenziale, che scaturisce dalla sua natura di drammaturgo e che non poteva non sposarsi alla perfezione con il sentimentalismo di Pedro Felipe. Eppure proprio questo sentimentalismo – venato di una agrodolce testardaggine che conferisce umanità al personaggio – non è mai stucchevole, anzi, sembra strattonare il lettore, quasi a volerlo ricondurre all’autenticità della vita, fatta di piccole cose e grandi entusiasmi.

Descrivendoci, da una parte, una Spagna che con i suoi colori e i suoi sorrisi accoglie sì, ma è anche pronta a tradire, e, dall’altra, una Milano cupa e tormentata, in cui i sogni sembrano volatilizzarsi, mentre lasciano il posto alla dura realtà, Tirelli ci conduce in un viaggio intimo fra due terre a modo loro corrispondenti: con uno stile delicato e ironico, fluttuante ma incisivo, Pedro Felipe diventa il romanzo rivelazione, poiché tratteggia il nuovo volto del classico romanzo di formazione.

lunedì 14 dicembre 2015

Quando il mostro della depressione ci porta all'autodistruzione: "I ricordi non si lavano" di Aurora Frola

Buon pomeriggio a tutti voi lettori,



oggi vi propongo una video recensione per la quale mi sono davvero appassionata. Sto parlando della video recensione realizzata per I ricordi non si lavano  di Aurora Frola (Edizioni della Sera).

Quando si è sporchi dentro, quando si sente di aver toccato il fondo e si arranca per individuare una luce in fondo al tunnel, si avverte la necessità di scomparire, di annullarsi per mettere a tacere il dolore. Sono attimi eterni di disperazione che non concedono tregua al corpo e alla mente: disperazione che si tramuta in tragedia quando la vita è appesa al filo della depressione.

È così che nasce la storia di Angelica, tra una lavanda gastrica e il letto della clinica psichiatrica dove sarà ricoverata, ridotta ormai all’ombra di se stessa, un corpo trasformato in un campo di battaglia, scenario di dolorosi ricordi che non vogliono andarsene via. Angelica è la sofferente protagonista de I ricordi non si lavano di Aurora Frola (Edizioni della Sera, 2012, terza ristampa 2014), pagine accorate, struggenti nella loro forza intrinseca.

Queste erano le parole che avevo utilizzato per introdurvi alla lettura del romanzo della Frola. Romanzo intenso, che ci aiuta a inoltrarci nel mondo spietato della malattia forse più terribile, perché colpisce l'animo umano: la depressione.



Ho cercato di raccontarvi le pagine struggenti del lavoro di Aurora Frola - cercando di collegare anche l'arte materica della Frola pittrice, al suo romanzo - in questa video recensione:





Buona visione e soprattutto buona lettura!

mercoledì 2 dicembre 2015

Quando la vita vince: "Il coraggio delle madri" di Marco Proietti Mancini

“Solo loro, solo le madri hanno coraggio abbastanza da vivere fino in fondo certe felicità”.

Prendete dei fogli di carta, una penna, una matita, qualsiasi cosa, e metteteci dentro tutte le emozioni di una vita: l’angoscia dell’incertezza, il terrore per una guerra che sembra non avere fine, il dolore di chi si vede sottratto l’affetto di una vita, l’amore incondizionato di una madre per i suoi figli, la gioia di ritrovarsi quando si pensava di non esserne più capaci.
Se unite tutti questi elementi, come i puntini di un grande puzzle, otterrete un romanzo che profuma di vita. Stiamo parlando de Il coraggio delle madri di Marco Proietti Mancini (Edizioni della Sera, 2015, pp. 231).
Dopo Da parte di padre e Gli anni belli, Proietti Mancini torna a narrare le esistenze di Benedetto ed Elena, un uomo e una donna stretti in una morsa d’amore e di paura: siamo nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale, una guerra che non perdona e che non lascia scampo ad alcuno; si respira la polvere delle strade italiane, l’aria frizzante della Capitale, la preoccupazione negli occhi e qualche sorriso azzardato, a dispetto di tutto ciò che sta accadendo intorno.
Benedetto, che impareremo a chiamare Bebbe’, deve partire per la guerra, deve andare in Africa, quella terra lontana e impalpabile perfino nei pensieri di Elena, giovane moglie innamorata e madre della piccola Annamaria. A tradire l’amore incorruttibile tra Elinu’ e Bebbe’ ci pensa la guerra, signora vestita dei colori della disperazione e dell’illusione di chi crede di essere sempre dalla parte dei giusti. Prima la Grecia, poi i sei mesi di addestramento per diventare paracadutista ed infine l’Africa. Questo è l’estenuante tragitto di Benedetto, chiamato a combattere una guerra non sua, una guerra che non aveva chiesto né voluto, perché la sua unica battaglia era quella di tutti i giorni, per e con la sua Elena, per e con la sua Annamaria, pochi mesi di respiri e già votata ad un’infanzia di affanni.
Il logorio dei mesi, che poi si trasformano in anni, lontani da casa, non intacca il coraggio di quell’amore così genuino, eppure antico, quasi fosse sempre appartenuto, fin dalla nascita, ad Elena e Benedetto. Benedetto tornerà, Benedetto torna, perché Benedetto non tradisce le promesse del cuore, Elena lo sa; ma l’attesa si trasforma piano piano in angoscia quando, di Bebbe’, le notizie sembrano disperdersi nell’aria torbida e soffocante di Roma bombardata.
“Elena dubiterebbe perfino di se stessa, se non ci fosse questa creatura attaccata alle sue gambe, questa figlia bellissima a ricordarle che bisogna vivere anche se la guerra non finisce mai. È lei a darle il coraggio, perché di tutti gli eroismi quello più grande è il coraggio delle madri, quando c’è una guerra appena fuori dalla porta di casa”.
Il coraggio delle madri è un testo completo, che arriva fino al cuore dell’essere umano, trascinando dentro di sé il vortice delle emozioni che il mondo propone e impone. È un romanzo italiano, in tutto e per tutto, figlio dell’audacia di un autore che ha trovato il modo di raccontare l’uomo, trasformandolo in passione allo stato puro.
L’orrore della Seconda Guerra Mondiale diventa qualcosa di tangibile: i numerosi episodi che descrivono la vita di trincea, lo spettacolo indegno della morte altrui, l’incredulità di dover combattere una guerra di cui non se ne conosce neanche il motivo, vengono narrati come fossero ricordi vivi, ancora pulsanti, che smaniano nella penna dell’autore. Lo struggimento di un corpo abbandonato in mezzo alla sabbia del deserto, ormai ridotto a poco più che una nuvola di uomo, si sposa con la poesia che Proietti Macini dipinge su ogni parola. La morte, così come la guerra, sono spettri di una verità cruda sì, dura fino al midollo, ma sono anche fantasmi descritti con una tale eleganza di sentimento che solo Proietti Mancini è in grado di equilibrare.
Nessun colpo viene risparmiato al lettore, si ha la consapevolezza di scendere in campo con coraggio e dignità. Si resta avvinghiati a Benedetto, ci si aggrappa alle sue parole di speranza e di sconforto, eppure si ha quasi timore di avanzare, di procedere con la lettura, proprio come se il pubblico stesso fosse in guerra, lì, con lui.
Ma la voce dell’Uomo riesce a sovrastare perfino l’assurdità della guerra, e lo fa con poche parole, qualche dialogo, una carezza interrotta dal terrore: Benedetto è stato fatto prigioniero dagli inglesi, non sa quale sarà la sua sorte, non sa se e quando potrà mai riabbracciare Elena, Annamaria, i suoi affetti più cari, ma una cosa la sa, gli si rivela, nitida, attraverso gli occhi del maggiore inglese che lo sta interrogando. Nemici o alleati, inglesi, tedeschi o italiani, tutti sono figli della stessa disperazione: vincitori e vinti, tutti figli di quella stessa inutile guerra, fratelli che combattono l’uno contro l’altro, senza un perché. E se questo è soprattutto un romanzo in cui le vere protagoniste sono le donne, è anche vero che questo è un romanzo dei figli, questi figli dispersi e malconci, succubi di una madre potente e forse, a volte, ingiusta, che punisce anziché consolare.
In queste pagine, Elena, sòra Francesca, Antonia e tutte le donne – grandi e piccole – del romanzo, vivono scolpendo nell’anima i segni indelebili della sorte. Le donne de Il coraggio delle madri muoiono in piedi, soffrono con severità, si aggrappano ai brandelli di vita che raccolgono per strada: perfino Roma, l’Urbe stessa, diventa madre che protegge e che si immola per i suoi figli, ferendosi sotto i colpi delle bombe, ma resistendo fino alla fine, a tutti i costi. Le madri sono coloro che, nel romanzo di Proietti Mancini, hanno la forza di credere ancora nella possibilità futura, sono ventri sacri, inviolabili e comunque eterni, perché a dispetto della morte che le circonda loro continueranno a combattere con la vita che donano, seppelliranno i corpi dei loro figli, dei loro mariti, dei loro fratelli, dando alla luce nuove esistenze.
Con Il coraggio della madri abbiamo la certezza che siamo stati, siamo oggi e saremo per sempre i figli di una madre comune e diversa al tempo stesso, prole di una maternità che governa il nostro destino di uomini, trasformandoci in figli del coraggio, della paura, della guerra e figli di una vita che spesso che non è quella che avevamo previsto.

Come in un film neorealista, proprio come ne La ciociara di Vittorio De Sica, le atmosfere che Marco Proietti Mancini ci descrive sono quelle dei ricordi di un passato recente, che brucia sotto la polvere dei libri di storia e soprattutto nel sangue dell’Italia: questa è la Storia vista con gli occhi di chi l’ha fatta e di chi l’ha subita, una Storia che ha tradito chi la abitava e che continua a logorare chi la racconta. Il coraggio della madri è memoria addolcita dalla lontananza, ma che continua a vivere grazie allo stile incisivo di un autore passionale.
Sono pagine che divorano la vita, che odorano di famiglia, di quotidianità e soprattutto che si affannano alla ricerca della normalità: la normalità ritrovata di Benedetto ed Elena, quella tanto sospirata normalità in cui convergono la sguaiatezza di una risata per strada, il rancore e il dolore per un addio inatteso e lo stupore per la gioia riconquistata.
Proietti Mancini si rivela autore dell’individuo, della semplicità che svela il pathos per la Vita vera, quella autentica, quella che trova la sua voce ne Il coraggio delle madri.

lunedì 30 novembre 2015

"Fossi in te io insisterei": la mia video recensione della lettera di Carlo Gabardini al padre

Buon pomeriggio lettori!



Oggi altro giro, altra corsa, ed eccomi qui per parlarvi di un nuovo consiglio letterario. Questa settimana per la rubrica Il libro suona sempre due volte suggerisco di leggere Fossi in te io insisterei. Lettera a mio padre sulla vita ancora da vivere di Carlo Giuseppe Gabardini (Mondadori, 2015).

"Venir fuori, mostrarsi per chi si è realmente, urlare cosa si desidera per la propria esistenza, non concerne solo la sfera sessuale, riguarda il nostro senso di stare al mondo. Fare coming-out significa cominciare a vivere".

Con Fossi in te io insisterei Gabardini - già autore e attore, conduttore per radio24 - approda nel mondo della letteratura contemporanea regalandoci una lettera a suo padre, scomparso ormai 15 anni fa, che oscilla tra la dolcezza, l'amarezza e l'immancabile ironia che lo contraddistingue. Questo libro è un coming-out della vita, un vero e proprio coming-out dell'esistenza, perché Carlo Giuseppe Gabardini decide di raccontarsi - a suo padre e al mondo - per quello che è: eterno indeciso, omosessuale gioioso, figlio incazzato e sofferente per la morte prematura di un padre che ha amato - ricambiato - con tutto se stesso, ma di un amore puro, sano, indipendente. Mai morboso, mai patetico. Autentico.


Ho cercato, attraverso questa video recensione, di spiegarvi cos'è Fossi in te io insisterei in 6 minuti totali.

Buona visione e ovviamente buona lettura!

(Per leggere la mia recensione completa clicca qui)



Vi ricordo l'appuntamento con Carlo Giuseppe Gabardini mercoledì 9 dicembre, ore 18.15, presso il Cantinone di Osimo (Ancona). Parlerò con l'autore di Fossi in te io insisterei.

Divertimento assicurato! Non mancate!


venerdì 27 novembre 2015

I "Silenzi di porpora" di Carlo Romano: R.I.S. in scena


Prendete una storia, metteteci dentro un capitano del R.I.S. – Reparto Investigazioni Scientifiche – di Messina, un assassino/a, una serie di delitti atroci che si dipanano tra i musei delle più grandi città siciliane, una grande dose di suspanse – mista ad inquietudine e, a tratti, ad autentico terrore – e un eccellente ritratto psicologico dei personaggi: avrete il thriller perfetto.
Thriller perfetto che da ora ha un titolo, Silenzi di porpora, e un autore, Carlo Romano, biologo molecolare nonché Maggiore dei Carabinieri del R.I.S. di Messina. Questo gioiello di ansia e paura, edito da Falco Editore, è l’opera prima di Carlo Romano, che ha voluto esordire con un romanzo che non lascia scampo al lettore. Intenso, coinvolgente e complesso.
Ci troviamo in Sicilia insieme a Giovanni Raimondi, neocapitano del R.I.S. di Messina, insieme a Santarelli, il suo collaboratore più anziano ma anche il più vicino a Raimondi per intuizione e intelligenza, e insieme a tutta la squadra del Reparto Investigazioni Scientifiche, chiamata ad indagare su una serie di omicidi che hanno qualcosa di assurdamente macabro.
L’assassino o l’assassina di cui Raimondi dovrà scoprire l’identità si sta divertendo a dare spettacolo della propria follia: nei più famosi musei delle più grandi città isolane vengono ritrovati dei veri e propri mosaici umani, una coppia di individui trucidati, dissanguati e poi ricomposti scambiando le parti dei due corpi.
Chi può mai compiere un gesto simile? E soprattutto, perché? Per quale motivo i corpi vengono sempre ritrovati in una cornice museale? Qual è il filo conduttore che porterà alla mente malata dell’assassino?
Una Sicilia grande e accogliente fa da sfondo a questa storia fatta di misteri, vendette e sanguinosi omicidi, una storia in cui la complessità della trama e la meticolosa descrizione di tutte le sue fasi, gioca certamente a favore dell’autore e anche del pubblico di lettori. Mentre ci si affeziona, a mano a mano, al capitano Raimondi e a tutta la squadra, non si può fare a meno di seguire con attenzione una vicenda che non ha nulla di scontato: fino alla fine il lettore porterà avanti la sua tesi, arrivando ad un passo dalla verità, ma che potrebbe essere smentita da un bel colpo di scena sul finire del romanzo.
Carlo Romano attua, con successo, un’operazione difficile e delicata: utilizzando tutti gli strumenti della sua realtà quotidiana, costruisce una trama che ruota attorno ad un cospicuo numero di personaggi. La particolarità, però, è che non ci troviamo di fronte a dei protagonisti artificiosi, statici, confinati entro il recinto delle macchiette classiche del giallo, nessun figurante banale o presentato in modo superficiale, ma anzi, sembrerà quasi di conoscerli, tanto sono vicini alla realtà di tutti i giorni: Romano porta in scena il suo lavoro, porta in scena il R.I.S. di Messina, aiutando il lettore ad immergersi nelle atmosfere che proprio l’autore vive ogni giorno.
Perfino la dovizia di particolari con cui vengono descritte le scene del crimine, le procedure effettuate nelle indagini, gli attrezzi utilizzati in laboratorio, contribuisce ad accentuare la suspanse e al contempo rende tutto molto più veritiero e, proprio per questo, accattivante.

Carlo Romano, insomma, sceglie di romanzare la realtà dei fatti, quella realtà che, purtroppo di frequente, leggiamo negli inserti di cronaca nera, ma lo fa tratteggiando il profilo psicologico dei soggetti e soprattutto dell’assassino. Il romanzo, esattamente come fa il serial killer, oscilla tra la vita e la morte, tra quel tutto e quel nulla che proprio il criminale vorrebbe indossare.
“Aveva danzato sul filo sottile che separa la vita dalla morte vestito del tutto e del nulla”.
L’elemento della danza richiama decisamente un appiglio alla vita, alla gioia dell’esistenza, gioia che, però, viene inabissata dall’esaltazione della morte: l’assassino distrugge per poter vivere di nuovo, per impregnarsi del nulla e quindi di un tutto che non gli appartiene, ma che sottrae alle sue prede. Dietro il macabro piano di uccisione delle sue vittime, infatti, il folle omicida nasconde un intento ben preciso, protetto da una ferrea psicologia dell’assurdo in cui si alternano i desideri di rinascita e di distruzione, gli estremi del destino dell’uomo.
Lo stile asciutto, limpido e velato di una sottile ironia – che non manca di far scappare un sorriso al lettore, specie durante i dialoghi tra Raimondi e Santarelli – è arricchito, inoltre, da un elemento che regala al thriller qualcosa di gustosamente letterario: Carlo Romano, con intelligenza e maestria, inserisce all’interno della storia una traccia classica, pochi e semplici spunti che richiamano l’Iliade di Omero e la tradizione della mitologia greca. Una scelta vincente per fare di un grande thriller anche un giallo raffinato, paragonabile per ricchezza della trama e finezza psicologica a Il silenzio degli innocenti di Thomas Harris.
Un romanzo d’esordio che non lascia dubbi, un autore che potrebbe rivelarsi una promessa del thriller italiano. Potente. 

venerdì 20 novembre 2015

Sono musulmano, non sono terrorista. Chi è l'ISIS e perché?


Parigi, 13/11/15. Illustrazione di Angela Varani


Buongiorno lettori,
ad una settimana di distanza è doveroso continuare a parlare non solo dei terribili attentati che hanno sconvolto Parigi - e l'Europa tutta - lo scorso venerdì 13 novembre, ma bisogna continuare a discutere sull'affaire terrorismo. Siamo in guerra, è ormai un dato di fatto. Ma contro chi?

Chi è l'ISIS? Come si struttura? Da chi è composto? E inoltre: come si finanzia questo sedicente e autoproclamato Stato Islamico?

Bisogna, è chiaro, partire dalle basi per avere un quadro più preciso della situazione. L'informazione attraverso i quotidiani, attraverso il web e, ora, anche attraverso i social network, è doverosa. Ma se si vuole andare a fondo e cercare di rintracciare cause fatti e conseguenze (possibili), propongo di studiare qualche testo che ho personalmente letto ed apprezzato.

#PrayForParis - illustrazione di Jean Jullien

 In primis suggerisco i testi che ho recensito nel corso di questo anno su The Fielder (cliccando sui titoli potete trovare la mia recensione e farvi un'idea più precisa):

- Il Califfato nero. Le origini dell'ISIS, il nuovo Medio Oriente, i rischi per l'Occidente di Jack Caravelli e Jordan Foresi, Nutrimenti : un testo basilare per comprendere chi è l'ISIS, come e quando nasce, dove si muove e come si finanzia.

- Arte e terrorismo. Sulla distruzione islamica del patrimonio storico artistico di Luca Nannipieri, Rubbettino : per comprendere, tra le altre cose, come l'ISIS riesce a finanziarsi con il saccheggio di opere d'arte e il commercio on line.

- La Soldatessa del Califfato. Il racconto della miliziana fuggita dall'ISIS di Simone Di Meo e Giuseppe Iannini, Imprimatur : l'intervista/ confessione shock ad una ex miliziana dell'Is. In appendice trovate anche il manuale di reclutamento.

- Maria Giulia che divenne Fatima. Storia della donna che ha lasciato l'Italia per l'ISIS di Marta Serafini (giornalista Corriere della Sera) : chi è Maria Giulia Sergio? Perché ha aderito alla causa jihadista? Si parla di foreign fighters e dell'asse Italia-Albania. (POST DEL BLOG)



C'è un punto, inoltre, su cui vorrei soffermarmi. Oriana Fallaci. Ho sentito e letto, in questi giorni, moltissime citazioni presumibilmente tratte dai libri della Fallaci e, beninteso, mi riferisco a La rabbia e l'orgoglio e La forza della ragione.  



Attacchi di una violenza inaudita (e menomale che siamo noi quelli che si battono contro il terrorismo) da una parte, atteggiamenti idolatranti dall'altra. La cosa più triste è che spesso la maggior parte di queste persone non ha mai letto la Fallaci, ma parla per partito preso.
Come ben saprete, ormai, io sono un'amante della cara Oriana, la buona, vecchia Oriana che sta a tutti sulle palle. Perché era irriverente, perché aveva un modo piuttosto aggressivo di proporsi e di esporre le proprie idee, eppure Oriana è stata immensa ed è stata molto altro.
Ripenso a Un uomo, ripenso a Lettera a un bambino mai nato, a Penelope alla guerra, a Niente e così sia. Ripenso a Un cappello pieno di ciliegie, alle prime interviste ai divi del cinema raccolte ne Gli antipatici, ripenso anche a Il sesso debole. E poi ci sono quei testi che non potete permettevi il lusso di non leggere, non fosse altro che per avere contezza di chi state (e di cosa state) criticando: parlo di Intervista con la storia e Intervista con il potere. Questa raccolta di interviste ai grandi personaggi che hanno fatto la Storia del Novecento è qualcosa da cui non si può prescindere, se davvero si vuol capire chi è stata Oriana Fallaci.

Ed infine, certo, c'è stata La rabbia e l'orgoglio, c'è stata quell'Oriana che a troppi non è piaciuta. Eppure, nonostante possa capire la posizione di chi si scaglia contro una certa ideologia o contro una certa - miserevole - politica, continuo a non comprendere perché non si dà atto alla Fallaci di quanto ha predetto.
Sbagliato il modo? La do per buona. Giusto. Ma condannare qualcuno per aver sostanzialmente palesato una gran parte della triste verità che stiamo subendo oggi, no, è da vigliacchi. Perché radunare tutti i musulmani sotto la cupola del terrorismo è più che errato, ma nascondersi dietro ad un dito senza avere l'intelligenza di riconoscere da che parte proviene quel male, è altrettanto meschino.

L'ISIS, il terrorismo, l'Islam integralista e fondamentalista, sono certamente un tumore dell'Islam moderato (se ci pensate, perché avere la necessità di parlare di Islam "moderato"? Noi abbiamo forse un Cristianesimo "moderato"? No. C'è sicuramente un Cristianesimo che, in nome di Dio, ha combattuto crociate e bruciato le streghe al rogo, ma, insomma, eravamo anche in pieno Medioevo. E pur constatando che anche oggi esistono i fanatici - per qualsiasi tipo di religione - dobbiamo intelligentemente e obiettivamente ammettere che NESSUNO UCCIDE 130 PERSONE per fanatismo religioso all'urlo di Allah è grande!), ma, per capire contro chi dobbiamo combattere, non si può prescindere - armandoci di buon senso - dall'individuare la provenienza del germe del male.

Detto ciò, vorrei proporvi qualche riflessione sulla figura di Oriana Fallaci. Io ne ho scritto qui, sempre su The Fielder, a più riprese:

- Oriana una donna di Cristina De Stefano, Rizzoli : consiglio di partire da qui per capire chi era davvero Oriana Fallaci. Una biografia essenziale, asciutta e non retorica.

- Il mio cuore è più stanco della mia voce di Oriana Fallaci, Rizzoli : un testo in cui sono raccolte le conferenze che Oriana ha tenuto nelle varie università americane. Si parla di giornalismo e di politica.

- La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci, Rizzoli : ecco il manifesto di Oriana Fallaci, il testo incriminato. Io ho provato ad analizzarlo punto per punto.


Mi permetto di inserire anche la mia recensione a Sottomissione di Michel Houellebecq , testo profetico, a suo modo:

- Sottomissione di Michel Houellebecq, Bompiani. 


Buona lettura e buone riflessioni.

Tutte le Donne di Giuseppina Torregrossa, ossia "Il figlio maschio"


“No, non mi pare giusto, è che il mondo è fatto per i maschi. Ma tu devi resistere. Sei una femmina, puoi farlo”.
Il mondo è senza dubbio destinato agli uomini, ma le braccia che lo sorreggono sono certamente quelle di donne forti e volitive, sotto cui grava il peso del mistero esistenziale. A loro è concesso il dolore della Vita, che agita, sconquassa, mette alla prova con lo scopo di allenare il cuore agli addii e alle gioie sommesse.
Ma evidentemente la concentrazione più grande di donne, che prima ancora di essere individui sono femmine, la troviamo nella Sicilia di Giuseppina Torregrossa, che parla di grandi Donne nel suo ultimo romanzo Il figlio maschio (Rizzoli, 2015, pp. 309).
Questa è una saga familiare che abbraccia circa ottant’anni di storia vera – i personaggi sono realmente esistiti, alcuni sono ancora in vita – una storia fatta di piccoli e grandi sconvolgimenti, in cui all’odore degli agrumi siciliani si mescolano i pettegolezzi delle donne di Palermo, i rimproveri e le lacrime delle mamme catanesi e la dolcezza luminosa dei paesaggi siciliani.
Don Turiddu Ciuni - negli ormai lontani anni ’20 del Novecento - ha solo un pensiero in testa, un’idea fissa che sì lo culla, ma che soprattutto lo tormenta: chi dei suoi figli si occuperà del feudo di Testasecca una volta che le forze lo avranno abbandonato? Chi dedicherà il suo tempo, la sua passione, a quel terreno dell’entroterra siciliano che tanto gli somiglia? La moglie Concetta continua a deludere le sue aspettative, lei che si ostina a far studiare tutti e dodici i figli, femmine comprese, lei che mette in testa persino a Filippo, il primogenito a cui la terra sembrava destinata per legge naturale, quelle “grandissime minchiate” chiamate “libri”.
Fin da subito si delinea il filo conduttore del romanzo: i libri. L’amore per la carta, l’inchiostro, le copertine foderate in pelle e incise con grandi caratteri dorati, l’amore per la letteratura – e poi la passione per l’editoria – saranno i perni attorno a cui ruoteranno le vite dei protagonisti. Filippo Ciuni, “il figlio maschio” prediletto, segnerà il tracciato della storia della sua famiglia, una storia fatta di librerie, di bisticci, di pubblicazioni e anche di soddisfazione. Concettina, che adora quel fratello sognatore sì, ma anche concreto e intelligente, sposa la causa letteraria di Filippo e – siamo già arrivati a metà degli anni ’30 – insieme a lui lascia Sommatino per Palermo, dove intravede la possibilità di un futuro diverso, migliore, per e grazie ai libri.
“Nei libri Concettina cercava soprattutto vite nuove da vivere. E quando si affezionava a un personaggio, se lo portava dietro in ogni momento della giornata”.
Ecco che i libri, dunque, non sono solo simbolo concreto di indipendenza e di riscatto (grazie alla libreria aperta da Filippo), ma sono soprattutto passione e possibilità di reinventarsi, di ricercarsi (e ricrearsi) in altre esistenze, in altri luoghi, in altri personaggi. Per tutta la durata del romanzo i libri saranno la cupola sotto cui si raduneranno gli animi dei protagonisti, saranno il rifugio che non si piega allo scorrere del tempo, dei decenni e che non è soggetto a logoramento: cambia la forma, cambia la veste, magari si modifica anche il contenuto, ma l’essenza resta.
Da quel lontano 1934, durante il quale Concettina – che si sentiva al sicuro solo “in quella farraginosa gabbia d’inibizioni che si era costruita fin dall’infanzia” – e Filippo si industriano per portare avanti con successo la libreria, di anni ne passano, e passano così anche gli eventi, che si fanno parola a volte dura a volte morbida, scivolando sotto la penna guizzante della Torregrossa. La sorte decide che la famiglia Ciuni prima e la famiglia Cavallotto poi, si dovranno destreggiare nella rete di inganni, illusioni e sconvolgimenti che la vita ha riservato per loro. Tutto cambia e tutto resta: il cocente sole siciliano vedrà nascere e crescere gli amori di Mimma e Libertino, di Adalgisa e Vito, vedrà fiorire i sogni di Cetti, di Luisa e di Anna, così come il gelido vento palermitano di febbraio sarà testimone di morti dolorose e di addii inaspettati.
Giuseppina Torregrossa costruisce in poco più di trecento pagine una saga familiare che non lascia dubbi: intensa, appassionante, incisiva, una storia di vita vissuta che, proprio come la Vita, si aggrappa con tutte le forze alle pagine del libro, mostrando la sua forza e il suo coraggio. Le vere protagoniste del romanzo della Torregrossa sono le donne, quelle femmine siciliane che, dagli inizi del Novecento fino agli anni ’90, conservano un ardore speciale, quasi misterioso. A partire da Concetta Russo, passando per la figlia Concettina, fino ad arrivare a Mimma, Adalgisa, a Cetti, Luisa ed Anna, rintracciamo un unico sentimento, quello della rabbia. Ma, badate bene, non si tratta di rabbia intesa come elemento negativo, la loro è rabbia di vivere, o meglio la rabbia dell’esistenza: un concentrato di amore, sofferenza, illusione mascherata da disillusione, audacia e viva intelligenza, che le porteranno a fronteggiare i traumi della loro storia personale come solo le Donne sono capaci di fare.
Paradossalmente Il figlio maschio è un romanzo che parla di una femminilità che si impone con forza, donne sicure della loro disperazione e del loro perché.
“Era stata una donna forte e volitiva e aveva reagito alle avversità con un certo cipiglio”.
Questo si dice di Concetta, la moglie di Don Turiddu, che fin da subito impone al marito la sua necessità di allargare gli orizzonti: Filippo, il suo primogenito, non sarà destinato alla terra, ma alla cultura. Sono le donne a decidere cosa ne sarà del futuro, sono loro a stabilire l’urgenza del riscatto sociale, ad individuare la luce in fondo al tunnel, a rintracciare – ogni volta – il guizzo di autenticità che renderà le loro azioni pure e quasi sempre vincenti.

Gli anni corrono veloci, molte cose cambiano, le librerie chiudono e riaprono, ma la tenacia delle donne resta immutata. Chi con un pizzico di malizia, chi con arguzia, chi mossa da livore, chi da semplice – e ingenua – curiosità, ognuna di queste figure femminili (giovane o vecchia che sia) ha un ruolo ben definito entro il quale stabilisce il prima e il dopo in quella terra possente che è la Sicilia. Sicilia a cui la Torregrossa (palermitana doc) si sente particolarmente vicina e che sembra quasi diventare essa stessa una donna: è mamma che protegge e accudisce, ma al contempo è guerriera spavalda e severa, che rimprovera e ferisce. Un’isola che fa da sfondo a questo romanzo, romanzo che però, a sua volta, si impregna profondamente dei sapori e degli odori della sua terra, a partire dalla lingua: la Torregrossa accompagna il lettore nell’immersione delle atmosfere siciliane, utilizzando il dialetto in modo piacevole e delicato.
La Sicilia descritta ne Il figlio maschio è una Sicilia ben diversa da quella che ci presenta un Orazio Labbate, o un D’Arrigo o un Bufalino, perché non è solo terra oscura e torbida, autoritaria e misteriosa, che si dimena nell’inquietudine della notte, ma diventa Sicilia che abbraccia e accoglie, pur mantenendo la sua autorevolezza. Si avverte – con una venatura di nostalgia – l’impronta di Vitaliano Brancati, della struggente malinconia che pervade, a tratti, romanzi come Il bell’Antonio o Conversazione in Sicilia di Vittorini: la grandezza della scrittura della Torregrossa risiede nella capacità di sfornare un prodotto moderno ma che odora di antico, in cui è ancora possibile gustare il sapore della grande letteratura del Novecento.
Mentre da una parte i libri sono pilastro e fondamenta delle vite dei protagonisti e sorreggono il testo delineando anche le scelte di chi lo abita, dall’altra è vero che il romanzo, pur essendo portavoce del potere femminile, conserva anche uno sguardo per quelle anime maschili che sono il frutto stesso della donna. L’anima maschile più sensibile, e forse per questo più vicina al mondo femminile, è quella di Vito: marito devoto e discreto, padre premuroso e attento, libraio appassionato. Questo è Vito, il figlio prediletto di Concettina, che racchiude in sé una dolcezza che si distanzia nettamente dalla forza della madre, amazzone ferita ma ancora combattente.
Si intersecano, dunque, i vissuti di uomini e donne, di maschi e femmine, mentre si accingono a prendere posto in quel grande edificio di storia e di emozioni che Giuseppina Torregrossa ha eretto con Il figlio maschio.

venerdì 13 novembre 2015

Il bello dell'Italia visto con gli occhi della stampa estera

Buongiorno amici lettori!



Quanto è vivace il vostro spirito patriottico? Quanto amate il nostro Belpaese? Quanto vi sentite dei veri italiani?
Molto? Poco? Non importa, io ho comunque qualcosa che fa al caso vostro.
Oggi vi propongo l'intervista che ho realizzato per Sololibri a Maarten van Aalderen, autore de Il bello dell'Italia (Albeggi edizioni, 2015).

Potete cliccare qui per leggere l'intervista integrale, ma intanto voglio darvi un'idea di cosa parliamo.

Maarten van Aalderen, classe 1965, è un giornalista olandese che da ben diciotto anni è corrispondente del maggior quotidiano olandese, De Telegraaf, per l'Italia e la Turchia. E' stato anche, tra le altre cose, Presidente dell'Associazione della Stampa Estera in Italia dal 2009 al 2011 e dal 2013 al 2015.
Torna in libreria con Il bello dell'Italia. Il Belpaese visto dai corrispondenti della stampa estera: Maarten ha raccolto 25 interviste a 25 colleghi provenienti dai cinque continenti, i quali hanno parlato dell'Italia elencandone difetti sì, ma soprattutto pregi. Sì, perché questa volta van Aalderen ha deciso di fare - come l'ha definito lui stesso - "giornalismo positivo". Ha voluto parlare dell'Italia cercando di tirarne fuori le mille bellezze e sottolineandone il lato ottimista, creativo e cordiale.


Volete saperne di più? Potete anche leggere la mia recensione de Il bello dell'Italia realizzata per The Fielder cliccando qui!





Dunque non mi resta che augurarvi una buona lettura e ovviamente fatemi sapere cosa ne pensate!