sabato 30 agosto 2014

"Le relazioni pericolose" tra Oriana Fallaci e Indro Montanelli




Paolo Di Paolo giovedì 28 agosto 2014 ha dedicato un articolo intero al rapporto burrascoso tra Oriana. Fallaci e Indro Montanelli. Lo fa sul Corriere della Sera, riproponendo qualche stralcio delle conversazioni che i due grandi giornalisti italiani ebbero tramite missiva: "Sono le quattro del mattino e su New York sta per le arsi l'alba. Che notte difficile mi hai dato, Indro, che notte dolorosa. Io vorrei che almeno servisse a qualcosa: a ritrovarci perché, su questo maledetto argomento, ci siamo davvero perduti". Così si conclude, burrascosamente, la corrispondenza tra la Fallaci e Montanelli, e così, dopo ripetute discussioni e dispute su quelli che sarebbero dovuto essere gli argomenti chiave (Fascismo e Resistenza) del loro volume a quattro mani.
Per saperne di più, basta andare su Sololibri.net. Potete leggere il mio pezzo su http://www.sololibri.net/Oriana-Fallaci-Indro-Montanelli.html


giovedì 28 agosto 2014

"Le relazioni pericolose" tra Indro Montanelli e Oriana Fallaci

Oggi sul Corriere della Sera è apparso l'articolo di Paolo Di Paolo sul travagliato rapporto tra Oriana Fallaci e Indro Montanelli.
Il titolo, "Le relazioni pericolose", è più che azzeccato: "Le sigarette, l'Olivetti Lettera 22, i natali toscani. Indro e "la signorina Fallaci" - i due più grandi solisti del giornalismo italiano - avevano in comune anche una scorza ruvida e un talento fuori misura". Esordisce così Di Paolo, dilungandosi poi sulle lettere che Oriana e Indro si scambiarono in previsione di un progetto impegnativo e complicato: scrivere un volume a quattro mani, che "rischiava d'essere un capolavoro".
Ma lo scontro fra i due arriva nel giro di poche missive: lui non accetta di prendere da lei lezioni sul fascismo, poiché Oriana (classe 1929) nasceva "quando il fascismo moriva"; lei, che mentre gli ricorda di essere stata una staffetta partigiana e di aver vissuto in casa con uno zio "fascista violento e ottuso", si adira e ben presto la potenziale collaborazione giunge alla rottura.
"Le lettere tra due fuoriclasse che volevano scrivere insieme", e che non trovarono mai un compromesso per farlo, loro che di compromessi ne trovarono sempre pochi.
Grazie a Paolo Di Paolo per lo splendido articolo, per aver ricordato ancora una volta, con il tono appassionato che lo contraddistingue, le due figure più importanti del giornalismo italiano: una Fallaci coraggiosa (se pur inizialmente intimorita da questo collega di vent'anni più grande lei, IL collega), volitiva, dal carattere "impossibile", ma infinita, immensa, Donna. Ed un Montanelli forte, sicuro, anch'egli dal carattere di fuoco, alle prese, ora, con una personalità ardente.
La penna di Di Paolo, elegante ma puntuale, torna ad indagare "le relazioni pericolose" tra i due toscanacci, come già accennato durante l'incontro del Futura Festival di Civitanova Marche (lo scorso 25 luglio) in presenza di Cristina De Stefano, l'autrice dell'appassionante e affascinante biografia di Oriana Fallaci, - "Oriana una donna", come ricordato anche nell'articolo - assolutamente da leggere.



domenica 24 agosto 2014

Chiara Gamberale e il "Fenomeno dieci minuti": antibiotico culturale

"È curioso vedere che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che le maniere semplici sono quasi sempre prese per indizio di poco conto". 

Ho scelto di aprire quest'articolo con un aforisma del buon, vecchio Giacomo Leopardi sostanzialmente per due motivi: un po' perché Giacomo non sbaglia mai (quasi), ed un po' perché il pensiero racchiude nell'essenza il punto focale da cui vorrei partire. La semplicità. Direte voi: e che c'entrano i libri della Gamberale con Leopardi? Poco o niente, giustamente. Ma la Gamberale, ed i suoi romanzi, c'entrano con la semplicità di cui Giacomo parla. 

È da qualche tempo ormai che si può parlare di vero e proprio "fenomeno Gamberale", o forse sarebbe più opportuno parlare di "fenomeno dei dieci minuti": col suo ultimo romanzo (semi autobiografico, diciamolo) "Per dieci minuti", la giovane scrittrice romana ha dato letteralmente il via ad un vero e proprio gioco collettivo.

Per tutti coloro che ancora non avessero letto il libro - ed ora che siete incappati in questo articolo non potrete più tirarvi indietro - "Per dieci minuti" (Feltrinelli, 2013, 187 pp.) è un romanzo in cui troviamo una protagonista, Chiara, una antagonista, La-vita-a-volte, e tanti aiutanti. Chiara, smarrita in quel tunnel di malessere che alle volte qualcuno di noi è obbligato ad attraversare - lasciata dal marito dopo diciotto anni di matrimonio, derubata del lavoro che tanto amava, alle prese con una città, Roma, che tutto offre e tutto nasconde, anche i sentimenti più grandi - decide di accettare il "gioco dei dieci minuti" propostole dall'analista. Chi ha dei bambini, o anche semplicemente a chi è capitato di osservarli, anche da lontano, sa che il gioco è una cosa seria, e mai come in questo caso lo sarà per Chiara: ogni giorno, per trenta giorni, dovrà, per dieci minuti, fare qualcosa che non ha mai fatto prima. Che sia fare dei pancakes, mettere lo smalto fucsia, imparare a guidare, poco importa. Il fine ultimo è quello di concentrarsi, per 600 secondi del proprio tempo, e svolgere un'attività che fino a quel momento non aveva mai creduto di poter fare, perché assurda, improbabile, assolutamente lontana dalla sua persona. 

Ecco, questo è ciò che la Gamberale fa, o meglio racconta, nelle fresche pagine di questo libro, che muove a riflessioni importanti. E questo è ciò che hanno fatto milioni di lettori dopo la lettura. Ebbene sì, il gioco sembra essere contagioso, tanto più se si tende a vederlo come una sorta di "panacea" dei malesseri che affliggono i nostri giorni. "Per dieci minuti" è, in pochissimo tempo, divenuto il libro-guida per chi cercava di rintracciare se stesso, annaspando tra complicatissimi termini medici, incespicando tra ansiolitici e tisane rilassanti, è diventato, insomma, alla fine, il vademecum di chi, con grande sorpresa, è riuscito a trarre un sospiro di sollievo (la parola ai testimoni, e ve ne sono assai) grazie alla semplicità - ed eccolo qui, Leopardi - del racconto di Chiara Gamberale. Semplicità, appunto: la via migliore da percorrere per esporre i propri pensieri, dare sfogo alle proprie inquietudini, condividere malumori e gioie, e, in definitiva, essere in grado di aiutare chi si confronta con noi.

Eccolo lì, dunque, il Fenomeno dei dieci minuti: semplice e impegnativo, proprio come questo libro, che, nella sua immediatezza di stile ed estrema fruibilità, permette di correre - forse anche inconsapevolmente - il rischio di ottenere quel che forse stavate perdendo di vista: voi stessi.

Come scrissi nella mia recensione al romanzo: "Il resoconto del diario che Chiara tiene per un anno diventa, in realtà, il diario di tutti coloro che lo leggono. In ogni pagina, dietro ogni azione, anche e soprattutto dietro l'impresa più anomala, assurda, improbabile, c'è ognuno di noi. È come se tra le righe del testo spuntassero tanti piccoli e puntuali ritratti del genere umano, e questo grazie alla non comune abilità della giovane scrittrice di palesare, con naturalezza e vivacità, i lati oscuri e i pensieri più inquietanti che albergano in lei, in noi".

Dunque: leggete, giocate e vivete.

"Non ho più un amore. Non ho più una cosa che sento davvero mia, non ho più un lavoro che mi piaceva. Non ho un perno: ecco. Ma la vita che gira attorno a questo perno che non c'è, forse, non è poi così male."



sabato 16 agosto 2014

"Lei era di quel mondo, dove le più belle cose / hanno il peggiordestino": le anime di Marguerite Duras

Sandra Petrignani
Marguerite
Neri Pozza, 2014
pp. 212

"Ma c'era qualcosa di più importante di Robert per Marguerite Duras: scrivere. E scrivere per lei significava dire la verità estrema, quella nascosta, che affiora quando intorno è il vuoto, il deserto del pensiero, della compagnia, e resta solo la parola, la più precisa, l'unica".
Se la vita di questa tormentata scrittrice francese potesse racchiudersi in un solo termine, quel termine sarebbe "scrittura". Marguerite Duras, la Nenè di casa Donnadieu, lei che "odia il suo cognome" perché "lei con Dio non vuole avere niente a che fare", nasce il 4 aprile del 1914, ed è in  occasione del centesimo anniversario della nascita che Sandra Petrignani pubblica per Neri Pozza la vita romanzata della sua scrittrice prediletta. 
Non si tratta di una vera e propria biografia di Marguerite Duras, ma è piuttosto un romanzo, in cui ad elementi reali e nitidamente corrispondenti con la vita e l'ambiente della Duras, si mescolano dialoghi e descrizioni frutto dell'immaginazione dell'autrice. In queste duecento pagine, tanto dolorose quanto affascinanti, emergono le varie anime della Duras, forse una delle scrittrici più complesse e travagliate della storia letteraria del Novecento, alle prese con una vita lunga e tormentata, intrisa di sofferenza, speranze mal riposte e traboccante d'amore: tenero, violento, non corrisposto, amaro e dolce.
Al di là delle vicende turbolente che hanno contraddistinto la vita della ragazzina nata a Saigon (Indocina francese) e "cresciuta nell'acqua", ciò che ammalia e seduce il lettore è la presenza viva di Marguerite (o Nenè, o Margot) tra quelle righe: è come se lei stessa scrivesse la sua vita, anzi, è quasi come avere la sensazione che sia proprio lei, MD, a recitarla ad alta voce, seduta sul divano dell'appartamento di rue Saint Benoît, spavaldamente inquietante e malinconica nella sua "divisa" di sempre.
Con geniale maestrìa Sandra Petrignani ci offre un ritratto della Duras in pieno stile Duras. A partire dall'adolescenza indocinese, soffermandosi su quell'intricato e doloroso rapporto con la madre Marie, passando attraverso il successo letterario, gli innumerevoli amori malamente gestiti, l'iscrizione e la conseguente espulsione dal partito comunista, l'approdo nel mondo del cinema, fino ad arrivare all'ultimo stadio, quello del "panico dell'immaginazione", la Petrignani, con la sua penna incisiva ed elegante, elabora uno splendido romanzo, al termine del quale l'eroina, esausta, muore. Eppure sembra che non sia morta davvero, tante sono state le volte in cui, nel corso del racconto e della vita, Marguerite sembra perire: muore un po' quando vede il cadavere di Marie Dannadieu, muore un po' quando lei e Gérard fanno l'amore, muore un po' quando di Robert Antelme - deportato a Dachau - non si hanno notizie, muore un po' quando Gérard viene fatalmente colpito da infarto, muore un po' ogni volta che crede di non poter più scrivere. 




Marguerite Duras, implacabile ideatrice di racconti e romanzi, appassionata creatrice di volti, sguardi, sorrisi, grida, sentimenti, emozioni e dolori dei suoi personaggi, ora si trova al di qua della linea gialla, adagiata tra gli spazi bianchi di questo romanzo, personaggio protagonista della propria vita. Alla Nenè frustrata di "Una diga sul pacifico", ossessionata dall'amaro rapporto con una madre unicamente dedita al fratello Pierre - "Quando ci è mancato lo sguardo innamorato della madre, non basterà nella vita alcun successo a risarcirci. Soprattutto per una figlia femmina la mancanza di quello sguardo si traduce in insicurezza profonda, irreparabile, per tutta la vita e nonostante tutto" - , si alterna la Marguerite quarantaduenne, eroticamente unita a Gérard, conquistato dalla sua voce roca - "Lo schiaccia con la sua intelligenza, con la sua dolcezza, non ha mai incontrato una donna così intelligente e così determinata a convincerlo delle proprie idee" - . Ci si avvicina così alla Margot parigina, amica intima di Jeanne Moreau, amante implacabile di Robert, di Dionys, madre appagata di Outa, comunista eretica, accusata di sabotaggio al partito, di frequentazioni trotzkiste e di assiduità nei locali notturni, "ove regna la corruzione politica, intellettuale e morale". L'approdo finale è a MD: la Duras di Yann, la sessantaseienne ancora volitiva e seducente, prigioniera di un fascino più grande di lei, cacciatrice inquieta di una preda troppo giovane, troppo acerba nei suoi ventisette anni.
Come è scritto in "C'est tout", sorta di testamento spirituale della scrittrice, lei stessa è:  "un'intelligenza in fuga da se stessa. / Come evasa. / Quando si dice la parola scrittrice a Duras, ha un doppio peso. / Sono la scrittrice selvaggia e inattesa". Selvaggia e inattesa, questo è. E così, selvaggiamente, visse. "Una vita lunga riassunta in due misere date, e in mezzo? C'è stato tutto l'amore, soltanto quello, tutto l'amore. E un essere umano inconsolabile".

giovedì 14 agosto 2014

Il tempo mai stato - Stefan Zweig e il suo viaggio nel passato

Stefan Zweig
Il viaggio nel passato
Ibis edizioni, 2012
84 pp.


"Il viaggio nel passato" narra della storia di un amore impossibile, ma sincero e profondo, tra un ragazzo di umili origini e la moglie del suo ricco benefattore. Stefan Zweig, in questo breve capolavoro, narra il loro incontro dopo gli anni della separazione, il loro ritrovarsi e il loro inquietante interrogarsi su cosa fosse rimasto del Loro Passato.

Per leggere la mia recensione vai su http://www.sololibri.net/Il-viaggio-nel-passato-Stefan.html



domenica 10 agosto 2014

Un attimo di felicità - di Giulia Ciarapica

"Abitavano nell’ultima casa del quartiere, alla periferia della città. Femmine erano, di media statura, con gli occhi grandi. Erano legate da un sentimento silenzioso, che si faceva spazio tra le dita ferite della femmina più piccola e le labbra sanguinanti della femmina più grande. Madre e figlia avevano imparato ad amarsi udendo il rumore della sofferenza, ascoltando il pianto della pelle che tenta di aggrapparsi ad una coperta lacera. Non possedevano nulla, salvo qualche goccia di miseria e un sorso di povertà. "



Per leggere tutto il racconto vai su : www.sistafacendosemprepiutardi.wordpress.com !



domenica 3 agosto 2014

La Donna di Cristina De Stefano

Cristina De Stefano
Oriana una donna
Rizzoli, 2013
301 pp.

Uno spirito intraprendente, caparbio, costantemente alla ricerca della verità, della provocazione, di quella sana irrequietezza che dà modo alla vita di procedere col maggiore entusiasmo possibile, uno spirito intrepido e coraggioso, selvaggio e austero come quello di Oriana Fallaci, ha una prima grande ossessione: il tempo. Il tempo della Storia, il tempo della realtà, il tempo che scorre inesorabile e che non basta mai, il tempo che scandisce le tappe di un'esistenza con la E maiuscola, quella di una donna che ha saputo fare della propria vita un'avventura emozionante e spericolata.
Attraverso le pagine limpide e appassionate di Cristina De Stefano possiamo recuperare il ritratto della Donna per eccellenza, colei che attirò i complimenti più sinceri, le critiche più spietate e le maledizioni più acerbe. Oriana, il cui nome tradisce già un livello culturale superiore, poiché i genitori, poveri ma appassionati di letteratura, lo scelgono pensando alla duchessa di Guermantes di Proust, fin da piccola fu educata dal padre Edoardo a non avere paura, di niente e di nessuno, mai. Questa primogenita crebbe, dice la De Stefano, come un soldato, e da sodato Oriana combattè tutta la vita, impugnando come arma letale il proprio carattere, la grinta che la contraddistinse e che le regalò la fama per cui si rese famosa in tutto il mondo. Se l'infanzia della Fallaci fu abitata soprattutto dal ricordo della durezza, nondimeno in età adulta Oriana farà sempre i conti con quel ghiaccio superficiale che rivestì le sue fragilità e le sue insicurezze. Perché prima ancora che scrittrice, giornalista e corrispondente di guerra, era un essere umano, e come tutti gli esseri umani guerreggiava quotidianamente con se stessa.
Se sbarcare all'Europeo fu la mossa chiave che le permise di farsi un nome a livelli internazionali, riuscì, audace e volitiva, a raggiungere l'obiettivo che si era prefissata in un tempo record, divenendo ben presto corrispondente politica. Ed è qui che nasce la vera Fallaci, la tagliente dama del giornalismo italiano, la Fallaci che non perdona, la Fallaci che provoca, che osa, che vuole sapere, la Fallaci che lotta e ottiene. Le sue interviste a Kissinger, Arafat, Golda Meir, Indira Gandhi, Ali Bhutto, passeranno alla storia e saranno pubblicate proprio nel volume "Intervista con la storia". Tra queste, una in particolare ci dà l'opportunità di inquadrare la grande donna che si cela - ma non troppo - dietro la graffiante giornalista: l'intervista a Khomeini, durante la quale Oriana, con un gesto di stizza, si toglierà il chador, il velo che indossano "le donne giovani e perbene", come ebbe a rimproverarle l'imam, infastidito dalle insistenti domande dell'intervistatrice sulla condizione femminile in Iran. Il giorno dopo, quando ripresero il colloquio interrotto bruscamente da Khomeini, Oriana, senza batter ciglio tornò all'attacco:"Ora, imam, riprendiamo da dove abbiamo lasciato ieri. Stavamo parlando del fatto che io sono una donna indecente..". 
Questa era Oriana. La stessa Oriana che affrontò la guerra del Vietnam e rischiò la vita, la stessa Oriana che soffrì terribilmente per amore e per i ripetuti aborti, la stessa Oriana di cui Indro Montanelli disse:"Se Oriana intervistasse Dio gli chiederebbe la carta d'identità. Se dovessi intervistare io la Fallaci non gliela chiederei, perché certe domande può farle solo la Fallaci".  
Alle prese con una personalità di ferro e fuoco, indaffarata a tenere sotto controllo una vita da guerriera e da militante convinta, la donna Oriana non si rivelerà, in questo libro, semplicemente un'artista della parola, nè sarà solo colei che, durante le interviste televisive, riuscirà a ribaltare i ruoli senza vergogna nè pudore, mettendo l'intervistatore in difficoltà di fronte alla razionale e logica aggressività di quello che lei definì il "sesso inutile". Perché Oriana è altro: è la mamma mancata della Lettera ad un bambino mai nato, è l'amante sofferente di un Uomo, Alekos Panagulis, è la malinconica figlia di Un cappello pieno di ciliegie. Oriana è immensa, infinita, inarrestabile. Eterna.
Con un piglio vivace e armonioso, un incedere elegante e garbato quanto basta, la De Stefano è riuscita nell'intento di donarci il ricordo di una toscanaccia indistruttibile, ripercorrendo tutta la sua storia, dalla nascita alla morte, ed utilizzando un linguaggio semplice e immediato, proprio come quello di Oriana. E la De Stefano, così come lo fu la Fallaci, è stata chiara a tutti, anche ai giovani, a quelli che sperano, a quelli che stanno per intraprendere la lotta con la vita, ai giovani sani, arrabbiati e tenaci. È un libro che insegna a volersi bene e allo stesso tempo insegna l'arte del sacrificio, insegna a coltivare l'entusiasmo e la voglia di investire in se stessi, per se stessi.
Una Donna che visse al galoppo e morì in piedi. 
"Sono alla fine, (...) e voglio morire a Firenze. Ed ora ci siamo. Ma morirò in piedi, come Emily Brontë".


sabato 2 agosto 2014

I condizionali e i minuti della palingenesi: il tempo anestetico di Chiara Gamberale

Ripropongo, in questa giornata di grande soddisfazione e gioia, la recensione fatta un mese fa di "Per dieci minuti" di Chiara Gamberale. La mia recensione, letta e ampiamente apprezzata dall'autrice, è stata condivisa da lei stessa oggi sulla sua pagina ufficiale Facebook ("Chiara Gamberale"). 
Buona lettura!



Chiara Gamberale
Per dieci minuti
Feltrinelli, 2013
187 pp.


Non bastano certo dieci minuti per leggerlo, ma è assicurato che dopo i primi dieci minuti vorrete triplicarli. I minuti. Da dedicare a questo libro.
Non bastano certo dieci minuti per leggerlo, ma è assicurato che alla fine della lettura, e a questo punto non importa più quanto tempo ci avrete messo, troverete la voglia di impiegare dieci minuti della vostra vita, tutti i giorni, per un mese, facendo quel che non vi sareste mai immaginati di fare. E non occorre che siano il vostro analista o il vostro psicologo a suggerirvelo. Basta avere davanti a voi la linea della vita, intrisa di perché senza risposta, di domande retoriche e inutili, di esperienze non accumulate, di viaggi interrotti, di Ti amo mai detti, di strade mai intraprese. A quel punto vi renderete conto che per assaporare desideri e realtà nel modo più intenso e caparbio possibile, non occorre un'organizzazione sistematica della vostra vita. Vi renderete conto, anzi, che basta quella scintillante manciata di minuti per dare una svolta alla vostra esistenza. Per dare il via a quello che più di tutti ci fa paura, da sempre: il cambiamento.
Questo è ciò che fa Chiara Gamberale nel suo libro "Per dieci minuti": gioca. Gioca mentre vive. O vive mentre gioca, forse. Sta di fatto che accetta di portare a termine il Gioco dei dieci minuti, consigliatole dall'analista. Perché "il gioco è una cosa seria". 
Con grande freschezza e originalità, con l'amarezza e la rabbia di chi crede di avercela messa tutta, - e invece manca sempre qualcosa - con l'allegria e l'ironia di chi ha capito che vivere non è guardare il mondo attraverso lo specchio deformante dell'assuefazione amorosa, con la consapevolezza di non avere quella consapevolezza che una Donna dovrebbe possedere a trentacinque anni più che suonati, e, proprio grazie a ciò, attuando un inconscio atto di coraggio che le permette di uscire da Egoland - che poi diverrà magicamente (neanche troppo magicamente) egoland - per recarsi nella pescheria in fondo alla via ed ordinare un misto mare ed un'orata, - in previsione di una Vigilia di Natale sui generis-  alla fine, Chiara, sguscia dalla condizione "sottovuoto". E si immerge nella fase: Primo scaffale in alto a destra.
Il resoconto del diario che Chiara tiene per un anno diventa, in realtà, il diario di tutti coloro che lo leggono. In ogni pagina, dietro ogni azione, anche e soprattutto dietro l'impresa più anomala, assurda, improbabile, c'è ognuno di noi. È come se tra le righe del testo spuntassero tanti piccoli e puntuali ritratti del genere umano, e questo grazie alla non comune abilità della giovane scrittrice di palesare, con naturalezza e vivacità, i lati oscuri e i pensieri più inquietanti che albergano in lei, in noi. L'angoscia, la malinconica amarezza, il vuoto assordante che ci pervadono quando la persona che amiamo ci abbandona, dopo 18 anni di matrimonio, per via telefonica, dall'altro capo dell'Europa; lo stordimento e la rabbia che proviamo quando, di punto in bianco, il nostro lavoro viene affidato a qualcun altro - di cui non abbiamo la benché minima stima -; lo sconforto che ci assale quando siamo costretti ad abbandonare il luogo dell'infanzia e del cuore, quello in cui siamo cresciuti e in cui abbiamo maturato la certezza che alla fine tutto andrà sempre per il verso giusto, che ci saranno sempre questioni che mamma e papà risolveranno per noi, che non importa quale cosa terribile sia accaduta nell'arco della giornata, tanto alla fine si rientra sempre a Casa, rifugio per anime fragili.
Tutto questo, di colpo, può venire meno. Svanire. Evaporare. E si piomba nella realtà, quella triste, quella che hai sempre evitato, quella che non hai mai creduto potesse essere, in fin dei conti, così reale, perché la tua vita era fatta della stessa bellezza di cui sono fatti i sogni. 
Capita anche questo, nella vita di Chiara come nelle migliori vite. A quel punto, allora, si inizia a giocare, ed è proprio in quei dieci lunghissimi o brevissimi minuti che, ogni dì per 30 dì, avviene la favolosa trasformazione che porta alla palingenesi. Fare tutto ciò che mai, e dico mai, avreste pensato di fare prima: che sia camminare all'indietro, fare dei pancakes, imparare a guidare, poco importa. Condizione necessaria e sufficiente è buttarsi. Soprattutto in cose che credete siano le più lontane da voi, le meno quotate, quelle che fino ad oggi avete considerato stupide, improponibili o, perché no?, volgari. Rischiare, in poco tempo, di ottenere quel che avete perso di vista: voi stessi.
Se alla fine del mese avrete capito che non serve costruire un perno attorno a cui ruoterebbe ipoteticamente la vostra esistenza, ma è la Vita stessa ad essere perno e ruota insieme, allora sì, l'esperimento sarà davvero riuscito. Buona fortuna.
"Non ho più un amore. Non ho più una cosa che sento davvero mia, non ho più un lavoro che mi piaceva. Non un perno: ecco. Ma la vita che gira attorno a questo perno che non c'è, forse, non è poi così male."

venerdì 1 agosto 2014

Gli imperativi del buon senso e del peccato: Grazia Deledda mette in scena la Madre


Grazia Deledda
La madre
Edizioni clandestine, 2010
118 pp.




"Paulo, io non ho altro da dirti, e non voglio dirti più nulla. Ma parlerò di te con Dio". 

Cosa succede se un parroco devoto e casto si innamora di una donna "giovine e sola"? Cosa succede se la madre del prete lo viene a sapere? E cosa succede se la fanciulla abbandonata al suo destino di solitudine, ormai per sempre, minaccia di rivelare tutto durante la messa domenicale?

Succede quel che è successo all'interno del libro di Grazia Deledda, 116 pagine di fine mattanza psicologica. 

Trascendendo una dimensione puramente morale, oltrepassando i limiti imposti dal perbenismo, in questo breve capolavoro si staglia, imperante ed autoritaria, la figura della Madre. La vicenda del prete ventottenne in preda ad una crisi interiore, combattuto tra il giuramento di eterna fedeltà a Dio ed il desiderio di amare liberamente la donna che l'ha sedotto, riscoprire una debolezza adolescenziale mai portata a termine, una voglia contingente di cullarsi nel trasporto fisico nei confronti di una femmina in carne ed ossa, in realtà diviene un pretesto, quanto mai pericoloso, per dare spazio all'unica vera protagonista. 

La madre di Paulo, barcamenandosi tra il ruolo di confessore e boia, si batte fino alla fine in nome della salvezza del figlio, di quell'anima persa e sbrindellata che sembra logorarsi giorno dopo giorno, come un vecchio vestito. Paulo, rapito dall'estasi del momento lussurioso, non è più in grado di salvaguardarsi, nè tantomeno di mettere al riparo la sua reputazione, cristallina ed invidiabile, di uomo eccelso, prete salvifico, sopra ogni modo rispettoso di sè e dei propri fedeli. Maria Maddalena, presa dallo sgomento per la terribile storia del figlio, lo implora di tornare sui suoi passi, lasciando Agnese a crogiolarsi nella sua essenza di donna. Gli ricorda con severità: "Paulo, io sono una donna ignorante, ma sono tua madre: e ti dico che il peccato è una malattia peggiore di ogni altra perché intacca l'anima". È lapidaria in tutta la sua superbia, disperata in tutto il suo lacerante grido di dolore. Lei, vedova fin dalla nascita di Paulo, ha avuto nel corso della vita più e più volte occasione di "peccare, o almeno procurarsi qualche svago", resistendo paziente ai colpi del destino. Tutto questo in onore del suo ruolo di madre, e madre di un Uomo di Fede. 

Non ci sono più in ballo le apparenze, non ci sono più in ballo i pettegolezzi e i mesti sorrisetti dei viandanti che si affacciano all'uscio della chiesa: dentro queste righe c'è tutto il disagio di una donna che ha vissuto a metà, riversando sul figlio i timori taciuti, le passioni incontrollabili e quel senso di frustrazione che ha spalancato le sue porte dinanzi a Paulo e dinanzi a Dio. La Pace giungerà solo a conclusione del libro quando, ormai al culmine della sofferenza e della preoccupazione, Maria Maddelena, atterrita dalle intenzioni bellicose della giovane di rendere pubblica la relazione col figlio, morirà al cospetto di Paulo, in veste di celebrante, e di Agnese, angelo vendicatore pronto a confessare al mondo il peccato e l'orgoglio.

Testo inquietante per natura, emozionante per vocazione, alterna passi di entusiasmante vena descrittiva a passi di estrema freddezza narrativa. Una freddezza non del cuore, nè dell'anima, ma che scaturisce dal gelo della razionalità, chiamato a soccorrere e a placare gli scalpitanti desideri, divenuti fin troppo ingombranti. Un piccolo regalo della Deledda atto ad arricchire il panorama della letteratura italiana contemporanea.