venerdì 25 settembre 2015

La storia di Lady Jihad raccontata da Marta Serafini

È diventata la terrorista più famosa d’Italia, è la giovane Lady Jihad di cui la stampa italiana si è occupata per mesi. Stiamo parlando di quella ragazza che conoscevamo come Maria Giulia Sergio, giovane donna di origini campane che ha scelto di farsi chiamare, definitivamente, Fatima.
È la giornalista del Corriere della Sera Marta Serafini a raccontare la storia di Fatima nel libro Maria Giulia che divenne Fatima. Storia della donna che ha lasciato l’Italia per l’ISIS, uscito con il quotidiano milanese.



Un testo sconvolgente perché molto realistico, in cui non c’è spazio per l’immaginazione o per le supposizioni: sono i fatti a parlare, ed è la stessa Maria Giulia Sergio a dichiarare alla giornalista - durante una conversazione telefonica che viene trascritta nel prologo – che: 
“Nello Stato Islamico non c’è ingiustizia. C’è solo la giustizia della sharia”.
Sembrerebbero delle confessioni deliranti, e lo sono davvero, se non fosse che dietro queste parole c’è una logica ben precisa, stringente e a cui Fatima si appella per convincere tutta la sua famiglia a trasferirsi in Siria, all’interno dello Stato Islamico, dentro le radici del terrore.
La storia di Maria Giulia viene raccontata dalla Serafini in modo dettagliato, senza tralasciare alcun particolare, ma, ancora prima che la narrazione vera e propria inizi, la giornalista del Corriere della Sera fa due considerazioni molto importanti nell’introduzione: in primis sottolinea la paura che la conversione e dunque l’intero percorso di Fatima, possano essere visti come uno strumento per reclutare nuove giovani, poiché è possibile incappare nel rischio di trasformare Maria Giulia in un vero e proprio personaggio, dunque facilmente trasformabile in “eroina”. In secundis la Serafini all’inizio si chiede: basterà, qualora Maria Giulia decidesse di tornare in Italia, sbatterla in galera per allentare la morsa di una minaccia che, di giorno in giorno, si fa sempre più incombente?
“Cosa succederà quando queste persone o i loro figli faranno ritorno? Saremo in grado di ricucire uno strappo così forte?”
Questo è solo il primo di una serie di interrogativi che il testo pone al lettore.
Si parte dal racconto della giovinezza di Maria Giulia Sergio, una ragazza come tante che nasce a Torre del Greco nel 1987, all’interno di una famiglia semplice, senza pretese: la madre Assunta, che lavora saltuariamente come sarta, il padre Sergio, non particolarmente fortunato nella sua carriera, e la sorella Marianna, anche lei convertita convinta.
Nel 2000 la famiglia decide di trasferirsi al Nord e nel 2007 Maria Giulia inizia la conversione all’Islam, pronunciando, il 14 settembre di quello stesso anno, la sua professione di fede, la shahada. Da qui in avanti assisteremo ad un susseguirsi di eventi che porteranno definitivamente la ragazza a diventare Fatima: nel 2009 inizia ad indossare il niqab, la veste che copre tutto il corpo, occhi esclusi, e si avvia a quello che gli esperti chiamano l’involvement, ossia il coinvolgimento, spiega la Serafini.
Da qui ad arrivare a contattare Bushra Haik, sua coetanea originaria di Bologna ma con passaporto canadese, trasferitasi a Riyad dopo aver sposato un imam, il passo è breve. Bushra offre via Skype, dall’Arabia Saudita, lezioni di arabo e di memorizzazione del Corano: in realtà dietro questa attività culturale si nasconde il vero ruolo di Bushra, ossia reclutatrice dell’ISIS. Bushra fa proselitismo via Skype, diffonde materiali e opuscoli tradotti in italiano e con modi affabili e dolci attira a sé tante giovani reclute femminili. Tra cui, ovviamente, Maria Giulia.
Qualche raccomandazione in fatto di discrezione, assicurazioni sulle condizioni sanitarie nell’Is e sulla vita che il Califfato offre ai suoi sudditi, e il gioco è fatto. Non resta altro da fare che sposare il musulmano prescelto, Aldo Kobuzi “in arte” Said, e volare così fino in Siria, meta agognata.
La parte più difficile, per Fatima, resta quella di convincere anche la sua famiglia a trasferirsi: la mamma Assunta è la più restìa, troppi dubbi, troppe insicurezze, non se la sente di lasciare tutti gli agi per andare in un Paese straniero che, magari, non ha neanche la lavatrice. E papà Sergio con la pensione come farà? La liquidazione, prima di un certo periodo di tempo, sembra non poter arrivare.
Tutti i dettagli, minuziosamente descritti, sono riportati in queste pagine di una sconvolgente durezza, ma una su tutte resta la qualità più grande di questo testo: Marta Serafini non dà risposte certe, estraendole dal cappello magico, ma pone soprattutto domande; non si erge a giudice supremo di ciò che racconta, ma è attenta a rivelare tutta la verità mantenendo una posizione lucida e distaccata. Fin da subito la giornalista chiede e si chiede quali siano le cause reali che portano al dilagante consenso dell’ISIS, senza fermarsi alla semplice testimonianza dei fatti.
Due sono i punti di forza del saggio: uno è sicuramente quello di parlare anche e soprattutto della condizione delle donne all’interno dell’Is. Marta Serafini, durante un intervento allo scorso Festival del Giornalismo di Perugia, aveva già accennato al ruolo delle donne all’interno del Califfato: ci sono le schiave, ci sono le compagne dei capi e ci sono le donne che vengono considerate idonee alla propaganda e anche al combattimento. In Maria Giulia che divenne Fatima il discorso si amplia e, dopo aver dato un esaustivo quadro della vita nello Stato Islamico e di come si svolgono le fasi di reclutamento e di trasferimento in Siria, si puntano i riflettori sul ruolo femminile e sulla evoluzione – presunta – di tale ruolo all’interno del mondo islamico del Califfato.
Se da una parte esistono, ora e sempre, donne che devono vivere relegate all’interno dell’ambiente casalingo, la cui unica preoccupazione è quella di cucinare per i fratelli e per i propri mariti, dall’altra sicuramente si avverte un cambiamento in tutt’altra direzione. Spiega la Serafini che ci sono state testimonianze di soldati curdi che affermano di aver ucciso delle cecchine dell’ISIS in Iraq, senza considerare il fatto che, da qualche tempo, circola un video di propaganda che vede un gruppo di donne, completamente velate, 
“mentre si addestra a sparare vicino alla chiesa di San Simeone in Siria”.
Sono piccoli indizi che svelano, tuttavia, come la situazione stia lentamente cambiando ed inoltre non fanno altro che mettere in risalto le forti contraddizioni dello Stato Islamico: alle donne viene imposto il velo, vengono trattate non più che come schiave, il cui unico compito sarebbe quello di soddisfare i soldati, salvo poi trovarle a ricoprire un ruolo di massima importanza, non solo nella struttura assistenziale dello Stato, ma nel più virile dei contesti, ossia il campo di battaglia.
Detto ciò, passiamo al secondo punto forte del libro: l’asse Italia-Albania. Non è un caso che il matrimonio tra Maria Giulia e Aldo Kobuzi sia quello tra un’italiana e un albanese, poiché la ragione di questa unione ha una spiegazione: il tessuto italiano e quello albanese sono molto simili. Partendo dal fatto che, come ben sappiamo, il reclutamento e la conversione di uomini provenienti da popolazioni disagiate, siano indubbiamente più semplici - poiché il jihadismo trova terreno fertile laddove difficoltà economica e ignoranza dilagano – tuttavia, nel caso in questione, ci sono delle differenze importanti tra le due famiglie.
Per i Kobuzi sono le moschee il primo contatto con il fondamentalismo, mentre per i Sergio no, perché è proprio la rete albanese che permette a Maria Giulia, e ad Aldo, di arrivare in Siria.
“La radicalizzazione albanese ha infatti avuto ripercussioni anche sull’Italia”.
Come dichiara Marta Serafini, molti esponenti dell’Islam radicale hanno vissuto e lavorato in Italia e questo ha permesso loro di intessere una certa rete di contatti e quindi di prendere parte alla propaganda e al reclutamento.
Questi due aspetti sono i punti chiave attorno a cui ruota il saggio della Serafini, che si prodiga nella spiegazione minuziosa di tutte le fasi cruciali che portano cittadini europei e non, come Maria Giulia e Aldo, a diventare dei veri e propri foreign fighters, ormai cuore pulsante del Califfato nero.
La storia di Fatima, che ha lasciato l’Italia per l’ISIS, è solo una delle tante storie che, purtroppo, arrivano da tutto il mondo, perché come ricorda Barbara Stefanelli nella postfazione al libro (usando a sua volta le parole di Abdel Bari Atwan, giornalista e saggista) dietro la sigla IS si cela
“un territorio ben amministrato, con una burocrazia efficiente rispetto alla media regionale (…) scuole con programmi definiti e una grande esperienza militare”.
Non solo. A questo Stato sempre più in crescita sulle mappe fisiche del Medio Oriente corrisponde anche uno Stato Islamico che si serve di tutte le tecnologie a disposizione per fare propaganda e per espandersi anche a livello digitale: web, social network, video, immagini.
Marta Serafini ci regala un testo eccellente. Leggere per capire. Comprendere per potersi fare delle domande.. Aver paura, ma con coraggio e consapevolezza.

giovedì 24 settembre 2015

"I ricordi non si lavano": il mostro della depressione raccontato da Aurora Frola

  “Dovrei impegnarmi a vivere, almeno quanto mi sono impegnata a distruggermi. Voglio smettere di essere quella persona. Vorrei ucciderla e rinascere diversa. Pulita. Intera”.


 Quando si è sporchi dentro, quando si sente di aver toccato il fondo e si arranca per individuare una luce in fondo al tunnel, si avverte la necessità di scomparire, di annullarsi per mettere a tacere il dolore. Sono attimi eterni di disperazione che non concedono tregua al corpo e alla mente: disperazione che si tramuta in tragedia quando la vita è appesa al filo della depressione.
È così che nasce la storia di Angelica, tra una lavanda gastrica e il letto della clinica psichiatrica dove sarà ricoverata, ridotta ormai all’ombra di se stessa, un corpo trasformato in un campo di battaglia, scenario di dolorosi ricordi che non vogliono andarsene via. Angelica è la sofferente protagonista de I ricordi non si lavano di Aurora Frola (Edizioni della Sera, 2012, terza ristampa 2014), pagine accorate, struggenti nella loro forza intrinseca.
La giovane Angelica ha un passato turbolento, fatto di abusi sessuali in famiglia, grandi quantità di antidepressivi, benzodiazepine, prostituzione, violenza e un doloroso rapporto con se stessa, che nasce in seno alle conflittualità tra madre e figlia. Parte tutto da lì, da quel senso di non accettazione che provoca voragini di dolore puro: guardarsi allo specchio e non vedersi, parlare e non sentirsi, percepirsi vuoti, succubi di un giudizio errato e tuttavia più importante di qualsiasi altro: quello materno. Il male va ricercato nelle proprie radici e le radici del male di Angelica hanno un volto, un nome e il suo stesso sangue:
“Ma che cosa succede nella mente di una bambina che mangia veleno tutti i giorni senza saperlo, costretta a ingoiarlo? Ti ammali dentro e basta”.
Angelica non è più la bella bambina dai lunghi capelli biondi che sua madre avrebbe voluto coccolare e vestire con pizzi e merletti fino ai diciotto anni, Angelica non è mai stata nulla di tutto ciò, semplicemente perché Angelica è sempre stata se stessa. Un unico pegno da pagare: la non accettazione. Si sa che chi è costretto ad immagazzinare solo rancore, delusione e disprezzo, non può far altro che disprezzarsi, odiarsi e detestare tutta la realtà circostante: la vita non è più un miracolo che dura lo spazio di un respiro, ma diventa gabbia bollente per un tempo infinito.
È così che si arriva all’autolesionismo, all’autodistruzione, imbottendosi, come ha fatto Angelica, di benzodiazepine, di alcol e vendendo il proprio corpo per poter acquistare i farmaci che diventano “cotone” per il suo cervello, concedendo una breve tregua al suo male di vivere.
Cosa fare per porre un freno a tutto questo? Cosa fare per non dovere più sentire il bisogno di gettarsi via? Di togliersi la vita? Angelica, come tutte le altre “bambole interrotte” affette da disturbi psichici e deviazioni mentali, viene ricoverata in una clinica psichiatrica, che per tre mesi diventerà la sua nuova casa.
Questa nuova famiglia, composta di anime fragili e di occhi spenti, sedati a colpi di psicofarmaci, acquisterà, nel giro di non molto, i tratti di un vero e proprio nucleo familiare per Angelica, nucleo familiare fatto della stessa sostanza di cui è fatta lei: dolore, sofferenza e una speranza recondita di riuscire ad aggrapparsi nuovamente alla vita.
Le benzodiazepine diminuiscono gradualmente, niente più droga, niente più alcol, niente più sesso con chiunque e a qualsiasi ora del giorno e della notte. Lucida e pura, mai più sporca di quella perversa moralità da quattro soldi. Eppure c’è qualcosa che fa ancora male, un passato che non vuole andarsene, perché “i ricordi non si lavano”, mai. La memoria scalfisce ancora una volta il presente di Angelica, lo intacca con la sua voce tonante: i tagli sulle braccia le ricordano quanto sia inadeguata a questo mondo, mentre il rosso vivo le ricorda quelle mura imbrattate del suo stesso sangue. Perché Angelica esprimeva così il malessere, insudiciando con il suo dolore le pareti bianche della casa: una sofferenza condivisa è una sofferenza urlata, e forse, per questo, apparentemente meno dolorosa.
La protagonista di questo romanzo duro come la vita e tenace come la morte, si rivela completamente incapace di gestire ogni tipo di relazione, che sia essa sentimentale, familiare, affettiva o amicale: ogni cosa grava sul suo corpo stanco, mentre Angelica è intenta a costruirsi un recinto di veleno da cui non potrà uscire, se non inizierà ad esistere in primis per sé. La libertà diventa un traguardo inarrivabile, perché deve passare attraverso l’accettazione e la comprensione del proprio Io, inesistenti in Angelica.
Ma sono sempre i ricordi ad intralciarle il passo, a farle lo sgambetto ogni volta che prova a sentirsi migliore, a sentirsi diversa, nuova; solo la distruzione di ciò che la circonda, degli oggetti, della memoria, di tutto ciò che osa parlarle di lei, del mostro che le abita dentro da troppo tempo, solo questo può donarle un momentaneo - e illusorio - stato di benessere. Distruggere significa poter rinascere, almeno per un breve lasso di tempo: sfogare la propria angoscia e attuare una palingenesi incompleta, perché mai realmente vissuta nel profondo.
I ricordi non si lavano è forse uno dei testi più accattivanti degli ultimi tempi, un romanzo che cresce insieme al lettore, guidandolo nei meandri dei peggiori incubi dell’uomo. Aurora Frola riesce a dare vita alla morte che ci attende dietro l’angolo, regalandole una nuova luce di speranza. Questa è la letteratura che indaga realmente le emozioni e che ha il coraggio di dare voce a quel “mostro” chiamato depressione: come fece il compianto Giorgio De Rienzo ne Il dolore di amare, così Aurora Frola con I ricordi non si lavano porta il pubblico dei lettori a guardare giù, in quel pozzo senza fine che risucchia pensieri, sentimenti, entusiasmi e speranze, trasformando il corpo in un involucro marcio, che tutto ingoia, tutto accetta, tutto assorbe, fino a scomparire, implodendo.
Un romanzo che lascia galoppare la realtà, spingendola fino al limite, con una scrittura audace e potente, incisiva e tuttavia mai volgare: le parole diventano armi con cui combattere contro il nemico che abita dentro di noi, perché a volte ciò che di cui abbiamo bisogno è salvarci da noi stessi.
“Il dolore è un mostro che ci accompagna. È qualcosa che cresce dentro di noi, si trasforma e ci annienta se non lo gestiamo. (…) Dobbiamo imparare ad accudirlo, stargli dietro, coccolarlo. È un cucciolo che sa mordere se non riceve attenzioni”.

sabato 19 settembre 2015

"Lo Scuru" di Orazio Labbate: la voce maestosa della Sicilia

“Lo ammazzava l’impaurimento che la Trinità perseguitante, lo Scuru, la Statua e u Diavulu, s’abbattesse oltre che su se stesso altresì contro la fimmina. Ché avrebbero avvelenato anche i sogni di lei per poi impossessarsi insino del corpo fino a stutarla”.
È Razziddu ad avere paura, il giovane Razziddu Buscemi che, mentre narra gli infausti accadimenti della sua vita compromessa, si ritrova ad invecchiare – ad un passo dalla morte - lontano dalla amata Sicilia, a Milton, nel West Virginia, dove è emigrato da molti anni ormai.
Questo è il protagonista del primo potente romanzo di Orazio Labbate, che con Lo Scuru (Tunué) si cimenta in un racconto impregnato di inquietante visionarietà.



Razziddu è orfano di padre, cresciuto all’ombra del ricordo funesto della misteriosa morte di Carmelo Buscemi: il ragazzo lo invoca, affranto dalla disperazione, gridando al mare la sua rabbia, in modo accorato, supplice, perché è stato proprio il mare ad averlo portato via.
La vita del giovane si snoda a Butera, piccolo paese siciliano affacciato sul Mediterraneo, all’interno del quale si schiantano i rintocchi funebri della morte e del dolore, rintocchi che scandiscono proprio l’esistenza di Razziddu. Questo giovane visionario è ossessionato dalla religione, dalla morte, dall’inafferrabilità della disperazione, e cresce in seno agli esorcismi che mamma Angelina e nonna Concetta A Burduna praticano su di lui.
“Lesto Razziddu, dammi il vasetto col tuo seme e insino la lingua d’angello”, mi ammonì, presa dallo scattìu sacro”.
È un corpo che scalpita quello del giovane siciliano, un corpo che si incendia, si raffredda e torna di nuovo ad ardere, senza requie; Razziddu è materia e soffio di vento, è sfregio sanguigno e impalpabilità: un essere fatto di pensieri acuminati, di visioni oscure che si accalcano nel petto e nella mente, fino ad intaccare l’animo. Razziddu è vita e morte, ombra, oscurità e luce accecante, quiete, ma solo quella che precede la tempesta.
Il ritmo dei giorni del ragazzo è scandito da formule magiche, pozioni, riti e dall’incombente presenza della morte, dello Scuru, che si adagia insino tra le vie di Butera, sotto un cielo violaceo e greve. La Sicilia, terra tanto ostile quanto accogliente nella sua rigogliosità, diventa anima viva di queste pagine: è un’isola che racconta “fabule nivure”, terra mistica che diventa scenario di visioni che non solo scavalcano la realtà, ma scavalcano anche la vita oltre la vita.
La Sicilia è Razziddu, Razziddu è la Sicilia: due volti diversi della stessa maledizione.
Eppure il sibilo della vita si risveglia in Razziddu nell’incontro con Rosa, “una femmina cogli occhi neri di una vallata”. Rosa lava il buio con le sue lacrime, lo trasforma in santità, mentre Razziddu continua ad essere “cumpari” del Diavolo: una scheggia di luce al cospetto del buio, uno schiaffo della vita in faccia a lo Scuru, l’amore sembra abbattere l’oscurità dell’addio perpetuo.
È un romanzo di grande spessore quello di Orazio Labbate, che ruba la scena ai grandi classici conservandone la potenza: c’è la calma bollente di Verga, la passionalità di Capuana, la prosa ardita e barocca di conterranei come Bufalino e D’Arrigo. Un giovane scrittore che è stato in grado di sospendere il tempo della realtà, ingabbiandolo nella crudele afa siciliana, mentre ha dilatato via via lo spazio circostante, intingendolo in quelle visioni ardenti e nel blu di un mare spietato e indifferente.
Si avverte, tra uno scalpiccio nostrano e l’altro, anche un antico richiamo greco, che parte da una dolorosa palingenesi: Razziddu, durante la ricerca del corpo del padre in mare aperto, sfidando le onde in compagnia del mago Nitto, sembra vestire i panni di un giovane Odisseo, alla ricerca della sua Itaca, delle sue origini, incurante dei pericoli che gli dei hanno messo al suo servizio. Da qui il parto, la nascita del nuovo Razziddu Buscemi, che cerca la vita nella morte certa e aspira ad una nuova vita, costantemente in bilico tra la luce e lo Scuru.
Accompagnato dal fuoco, elemento chiave di tutto il romanzo - poiché uccide e al contempo purifica e redime - il protagonista riesce a chiudere il cerchio solo alla fine, quando, assieme all’amato zio, dà fuoco alla chiesa del paese, espiandone i peccati e liberandola dal giogo della menzogna, e quando, finalmente, riuscirà ad affondare le dita nel mistero del Male, contenuto nel corpo sbrindellato del mago Nitto. Nitto, il file rouge che lega Razziddu a Carmelo, che lega la colpa del padre a quella del figlio, è, in realtà, il Tiresia siciliano: si narra che Tiresia, il celebre indovino della mitologia greca, fosse stato tramutato prima da uomo a donna, e poi di nuovo da donna a uomo, esattamente come accade a Nitto. È sì, uomo e mago, ma è anche donna e maga quando prende le sembianze della majara Minica:
“È iddo, Razzì. Il majaru è la majara appunto. Tuttu dui dello Scuru sono il taumaturgo tìntu”.
Con uno stile spigoloso, puntellato di termini dialettali siciliani, giocati con maestrìa grazie ad una scrittura rocciosa, che colpisce come una mannaia, ma senza tradire la delicatezza dell’atmosfera rarefatta e la poeticità del barocco siciliano, Orazio Labbate costruisce un romanzo mistico, condannato alla bellezza dell'inafferrabilità, tanto cara all’essenza della vita quanto a quella della morte.
Un capolavoro struggente e ammaliante, portavoce di una Sicilia che lascia il segno, ancora una volta.

venerdì 4 settembre 2015

"Costituzione, Stato e Crisi": il manifesto di Federico Cartelli



“È imbarazzante voler far credere che quella del ’48 sia la Costituzione di tutti, quand’è palese che essa sia stata sequestrata da una determinata parte della politica e dell’accademia”.
No, non avete letto male, la frase è proprio questa. E no, non state sognando, si parla proprio della nostra Costituzione. Penserete, dunque, “Ma chi è questo pazzo che si esprime in modo così audace parlando della Costituzione?”. La risposta è semplice. Si tratta di Federico Cartelli, autore del libro Costituzione, Statoe Crisi – Eresie di libertà per un Paese di sudditi (libro disponibile in formato cartaceo e ebook su Amazon e anche in formato ebook per i seguenti dispositivi: Ibooks (Ipad), Kobo Store (Kobo) e Google Play (dispositivi Android).
Non si tratta di un vero e proprio saggio, quanto più di un manifesto in cui Cartelli compie un atto di coraggio non sottovalutabile, anzi. Mette in discussione uno dei miti storici della nostra società: la Costituzione. Nel farlo, però, non si ferma ad accertarne i limiti e i difetti, non si limita a dire che la nostra Carta non è di certo “la più bella del mondo”, ma attua dei confronti importanti con gli altri Paesi europei e, soprattutto, propone una visione alternativa, che parte da ciò che, secondo l’autore, manca alla nostra società: uno spirito critico autonomo.
Che cos’è in realtà la Costituzione? Cosa rappresenta, oggi, per l’Italia e per gli italiani? E soprattutto, quali sono le responsabilità della politica nell’aver perpetuato il culto della suddetta?
Queste sono alcune delle domande che il manifesto pone e che trovano risposta in un Federico Cartelli più agguerrito che mai. La Magna Carta – come scrive l’autore – è stata concepita ormai molti decenni fa, in un contesto culturale in cui (come ricorda anche Montanelli nella Storia d’Italia) le due forze politiche – cattolica e marxista – hanno fatto scivolare dietro le quinte i grandi ideali liberali (e, dunque, proprio le libertà individuali, come iniziativa e proprietà privata) e, pertanto, non è riuscita ad adattarsi al nostro tempo e, cosa ancora più atroce, l’incapacità cronica di ritoccare, migliorare le basi fondamentali della Costituzione, non ha fatto altro che rafforzare il dogma della sua intoccabilità.
“Mettere in discussione quella che Roberto Benigni ha definito «la nostra mamma» equivale a un atto sovversivo”
Non solo è vero, ma può essere anche “pericoloso”, considerando il grande e fervente pubblico che continua a considerarla qualcosa di sacro e inviolabile. Eppure Cartelli non si risparmia e ne ha per tutti: a partire dalle cocenti considerazioni sullo Stato (“Lo Stato, attraverso la Costituzione, propaganda sé stesso e in esso si specchia”), passando per una lunga e puntuale dissertazione sulla scuola e sull’insegnamento della Costituzione all’interno della stessa (“Noi, anziché creare i leader di domani, creiamo persone deboli, già abituate alla comodità della spintarella di Stato”), fino ad arrivare a ricchi capitoli che riguardano il diritto al lavoro (“Il diritto al lavoro è la prima di una lunga serie di licenze poetiche che si sono concessi i nostri Costituenti, in particolare nei Principi fondamentali”), la ricchezza personale intesa come vera e propria colpa, da punire in nome dell’equità (“[Si è] colpevolmente legato il concetto di libertà a quello di uguaglianza economica e sociale, creando un humus ideologico che ha messo al centro d’ogni ragionamento la collettività a scapito dell’individuo”), e il federalismo – argomento sul quale Cartelli si sofferma lungamente.
Un testo breve eppure ricco quello di Federico Cartelli, un testo che, in primis, ha l’obiettivo di scuotere le coscienze addormentate degli italiani “sudditi”, ed in secondo luogo indaga, in modo puntuale e preciso, le problematiche che affliggono il nostro Paese, che gli impediscono di presentarsi, a livello internazionale, in una nuova e migliorata veste, sanamente volta allo slancio competitivo. Tutto questo è possibile partendo proprio dalla base, dalla Costituzione e dalla necessità di prendere le distanze dall’idea che la soluzione a tutto sia lo Stato. 
Costituzione, Stato e Crisi (con una prefazione di Carlo Lottieri) è un testo dalle mille sfaccettature, che non si pone come guida essenziale e suprema, né tantomeno come portavoce di verità inviolabili, ma piuttosto vuole rinverdire quel sano spirito critico che gli italiani sembrano aver perso e di cui necessitano per affrancarsi dai dogmi imposti dallo Stato.

Per conoscere meglio Costituzione, Stato e Crisi e il suo autore, ecco l’intervista a Federico Cartelli.


Dunque Federico, da dove parte l’idea di questo libro e soprattutto perché la necessità di scriverlo e pubblicarlo ora?
Voglio darti due risposte a questa domanda. La prima, di carattere più generale, è che l’idea di
questo libro è sempre stata con me, perché scrivere qualcosa di mio è un pensiero che ho
avuto sin da bambino: quindi direi che questo è il naturale approdo. La seconda, più specifica,
è che ho deciso di trattare proprio questo argomento perché mi sono accorto, facendo delle
ricerche, che la proposta editoriale di critica alla Costituzione era pressoché nulla. E’ in
commercio una sterminata letteratura che incensa e loda la Carta, ma è avara nel senso
opposto. Quindi, mi sono dato l’obbiettivo di sanare questa lacuna. Riguardo la necessità di pubblicarlo ora, in verità la data di pubblicazione - inizi di maggio - è stato il risultato di una concatenazione di eventi, anche di natura personale. In realtà avevo fissato la data di
pubblicazione un anno prima, ma per una serie di motivi e di circostanze non sono riuscito a rispettare l’iniziale programma. E, paradossalmente, è stato molto meglio così, perché non poteva esserci momento migliore di questo per far conoscere al pubblico il mio primo lavoro.

Qual è a conti fatti, per Federico Cartelli, il punto più debole della nostra Costituzione? E perché dobbiamo accettare che, come scrivi tu, non sia la Costituzione “più bella del mondo”?
Questa Costituzione ha tanti punti deboli. Se dovessi sceglierne uno, direi che l’incipit è forse quello più discutibile. La Repubblica “fondata sul lavoro” è una licenza poetica che i nostri Costituenti potevano risparmiarsi, e che ha dato luogo a davvero troppi “fraintendimenti”, diciamo così. Nel libro ne parlo in maniera approfondita nel capitolo 5. Non è la più bella del mondo perché, molto semplicemente, è il prodotto di un preciso periodo storico che ha oltrepassato da tempo la data di scadenza. Quella era una Costituzione di natura compromissoria che andava bene per un Paese ancora traumatizzato dalla guerra e succube degli eventi internazionali post-bellici. Come scrivo nel libro, è semplicemente una fotografia in bianco e nero di un mondo che non c’è più.

Ci dici, in poche parole, perché il federalismo non ha funzionato in Italia?
Senza scadere nell’accademia e volendo semplificare al massimo, il federalismo non ha funzionato perché manca uno degli elementi fondamentali che caratterizzano i sistemi di questo tipo: la responsabilità economica e politica degli enti federati. Le riforme pseudo-federali varate dai governi italiani ha dato l’autonomia e trascurato la responsabilità: e così ancora oggi gli enti locali in dissesto finanziario battono cassa al governo centrale. E noi paghiamo. Questo non è federalismo.

Costituzione, Stato e Crisi è un manifesto che potremmo definire duro, forte e “azzardato”. In fondo ci vuole coraggio per affrontare le tematiche che hai trattato e, ancor prima, ci vuole coraggio per mettere in discussione il concetto di Costituzione, figuriamoci tentare di minarne le basi. Che tipo di riscontro hai avuto con il pubblico?
Un riscontro che definirei sorprendente. Non mi ero fatto troppe illusioni al momento della pubblicazione. Invece, nei primi tre mesi - quando il libro era disponibile nel solo formato ebook e il cartaceo non era ancora in commercio - ho già venduto quasi 100 copie. Considerato l’argomento trattato e considerato che sono un illustre sconosciuto, mi ritengo già più che soddisfatto. Ma spero, ovviamente, che le “eresie” continuino a diffondersi a questo ritmo. Ciò che mi ha fatto davvero piacere sono stati i messaggi ricevuti su Facebook: non pensavo che il mio lavoro sarebbe stato apprezzato così tanto. E alla fine, per uno scrittore è questo l’aspetto più importante.

C’è un aspetto che hai tratto all’interno del libro al quale ti senti più legato? Se sì, perché?
Mi sento molto legato al già citato capitolo 5, e al capitolo 8 sul federalismo. E’ una tematica che mi piace particolarmente, e credo che ci tornerò anche in futuro.

Perché l’idea di questo titolo: “Costituzione, Stato e Crisi – ERESIE DI LIBERTÁ PER UN PAESE DI SUDDITI”?
Perché gli italiani, a forza di riporre la propria fiducia nello Stato, si sono ritrovati ad essere dei sudditi e non si sono accorti che ogni tassa che lo Stato introduce non viene mai più tolta. Lo Stato può fare ciò che vuole - tanto c’è la Costituzione più bella del mondo a fare da scudo - e intanto le libertà individuali vengono progressivamente erose. Basta vedere quanto è accaduto con la tanto decantata guerra all’evasione fiscale: sono stati introdotti strumenti orwelliani che ledono pesantemente la libertà individuale e lo stato di diritto, eppure molte persone hanno fatto spallucce. Bisogna rimettere in moto il diritto di critica e destarsi dal sonno della ragione.

“La vana ricerca di una società d’uguali ha generato un Paese timoroso della competizione e della concorrenza”. Ci commenti questa frase tratta dal tuo libro?
L’Italia è sempre stato il Paese del “nessuno deve rimanere indietro”. Invece, paradossalmente, non solo molti sono rimasti indietro, ma hanno pure fatto le valigie e hanno cambiato aria. La Costituzione risente pesantemente, come spiego nel libro, dell’influenza delle Costituzioni dell’Est. Il problema è che l’ossessiva ricerca dell’“uguaglianza” si è tradotta in un livellamento verso il basso delle competenze e nella staticità dell’economia. Appena sentiamo la parola “mercato” ormai ci viene in mente un mostro a tre teste. Purtroppo, in questo Paese - ancora prima di creare nuovi partiti politici - c’è davvero bisogno di intraprendere una lunga battaglia culturale contro il pensiero breve che domina il dibattito. Con questo libro, ho voluto dare il mio contributo e spero che per i lettori possa almeno essere uno spunto di riflessione.

Costituzione, Stato e Crisi è il tuo primo libro e, come capita ormai sempre più spesso, hai optato per l’autopubblicazione. Come mai? Come ti sei trovato a seguito di questa scelta?
Fino a qualche tempo fa, pubblicare un proprio scritto era pura utopia. Negli ultimi anni, invece, abbiamo assistito alla nascita e, soprattutto, alla maturazione di nuovi servizi online per l’autopubblicazione. Vi sono, naturalmente, dei pro e dei contro: io ho scelto Streelib e la mia esperienza in merito è positiva. I diritti rimangono assegnati all’autore - che può ritirare dal commercio o vendere ad una casa editrice il proprio scritto in qualsiasi momento - ed è possibile anche decidere e variare il prezzo di vendita in totale indipendenza. Per quanto riguarda la promozione, invece, è necessario rimboccarsi le maniche: non avendo una casa editrice alle spalle, l’autore deve fare tutto da solo. In definitiva, credo che l’autopubblicazione non sia per tutti, ma possa essere una valida alternativa. E’ appagante vedere il proprio scritto in tutti gli store internazionali, ma non bisogna fare l’errore di montarsi la testa, tenendo a mente che - al di là della promozione e di quanto si possa amare alla follia il proprio scritto - l’unico vero “giudice” sarà il mercato, ovvero i lettori. Da questa prospettiva, autopubblicarsi significa rischiare, e andare su un mercato altamente concorrenziale e vicino alla saturazione che abbonda di ogni tipo di proposta editoriale: insomma, per farsi notare bisogna sgomitare. Al momento del lancio, ho proposto l’ebook a 3,99 euro e da poco l’ho aumentato, ma solo di un euro. Il cartaceo è proposto a 11,99 euro. Di norma, gli scritti di questo genere vengono proposti a prezzi più alti (basta fare un confronto con opere simili su Amazon). Con l’autopubblicazione, le percentuali che rimangono all’autore sono accettabili, ma se devo essere sincero l’aspetto economico non mi interessa più di tanto: preferisco accontentarmi, piuttosto che scendere a patti con una casa editrice che magari vuole somme in anticipo direttamente dall’autore per coprire le spese. Non voglio ovviamente generalizzare, o demonizzare un intero settore: sicuramente ci sono case editrici oneste che fanno bene il proprio lavoro, ma credo che molti siano a conoscenza - internet abbonda di tali testimonianze - di pratiche poco chiare che a volte vengono messe in atto, in particolare nei confronti di scrittori alle prime armi.



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Ricordiamo che il libro disponibile in formato cartaceo e ebook su Amazon e anche in formato ebook per i seguenti dispositivi: Ibooks (Ipad), Kobo Store (Kobo) e Google Play (dispositivi Android).