giovedì 31 luglio 2014

Parmigiana e altri dolorosi condimenti - di Giulia Ciarapica

"Raggomitolata con le spalle al muro, i lunghi capelli biondi ad accarezzarle la schiena, qualche goccia di sudore le scendeva lungo il seno, piccolo e bianco. Aveva abbassato le difese ed ora era lì, rapita dall'immagine che le proponeva la calda piazza di luglio, alle 15 del pomeriggio, palpitante dietro il vetro della sua finestra. 
"Nun ce vojo annà! Nun ce vojo annà!"
"Daje Eugè! Viè qua bello de nonna, daje! Nun me fa 'mbestialì!"
"No! No! Nun ce vado là! Nun me piasce! Puzza de bbroccoli!"
Quanta invidia verso quella spensieratezza. Lei, che non riusciva a non pensare al suo disagio, che non riusciva a staccare l’attenzione dall'ingordigia di quel malessere che la divorava."

Racconto breve, dalle fattezze umane e inquietanti, doloroso al punto giusto, senza pretesa. Uno scritto che potete leggere interamente su: www.sistafacendosemprepiutardi.wordpress.com

Giulia Ciarapica



L'immenso edificio del ricordo. La "Recherche" di Proust oggi e domani - Gli incontri del Futura Festival

Futura Festival
Civitanova Marche Alta
30 luglio 2014




Si è tenuto ieri al Futura Festival di Civitanova Alta, accolto con un grande successo di pubblico, l'incontro su Proust e la "Recherche", nel quale sono intervenuti Diego Fusaro, Valerio Magrelli ed Eleonora Marangoni, autrice del libro "Proust. I colori del Tempo". Paolo Di Paolo, conduttore della serata, ha esordito leggendo il famoso incipit del capolavoro francese: "A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: "Mi addormento". 
Tanti e differenti i punti di vista e gli approcci che gli ospiti hanno avuto nei confronti di questa mastodontica e spettacolare opera, a partire da Valerio Magrelli, il quale ha indicato la "Recherche" come un libro di "avventure, pettegolezzi, trame", un'opera impegnativa per mole, ma naturalmente accattivante. Meno difficoltosa dell' "Ulisse" di Joyce, sicuramente più coinvolgente di un "Oblomov", "Alla ricerca del tempo perduto" è, in definitiva, la storia di un apprendistato, una specie di Wilhelm Mesiter goethiano, in cui, citando Magrelli, "Marcel, che si chiama come lo scrittore ma non è lui, impara a comportarsi, impara soprattutto i segni sociali". 
La "Recherche", però, è anche un libro in cui si parla del meccanismo attraverso cui riusciamo a ritrovare l'essenza del tempo e del nostro stare al mondo, un libro che, come dice Fusaro, risulta essere non solo imprescindibile per comprendere un dato momento storico, e dunque anche il clima culturale e filosofico di quell'epoca, ma appare anche come una sorta di reazione al quantitativo tecnico e scientifico che era dominante allora, e ancora più oggi. Ecco perché, per dirla con Diego Fusaro, Proust è utile ai giovani d'oggi: aiuta a pensare e ad elaborare una reazione adeguata al dominio sempre più invadente e ingombrante della tecnica e del progresso. Ciò che, in definitiva, ritroviamo anche nella filosofia di Bergson, contenuta, paradossalmente, in tutta l'opera proustiana. Proust, come Bergson, cerca di mettere a tema un concetto di temporalità che suona come l'antitesi alla concezione della temporalità della scienza, vale a dire una temporalità in cui ogni istante nasce e muore, spegnendosi per sempre. Ecco dunque la reazione proustiana - nonché bergsoniana - di proporre una temporalità qualitativa, in cui nulla sprofonda davvero negli abissi per sempre, ma può essere richiamato alla memoria, come suggerisce il titolo stesso dell'incontro.
Ma la vera novità dell'incontro è Eleonora Marangoni e il suo libro su Proust e i colori: trentenne studiosa di letteratura francese, si approccia alla "Recherche" all'età di vent'anni e "da allora non l'ho più abbandonata". Eleonora prova a raccontare Proust in un modo inedito, un modo che risulti più semplice e diretto per il lettore, vale a dire visivamente: nelle tremila pagine dell'opera Proust non si sofferma mai a dare una descrizione fisica, e dunque verbale, dei personaggi o delle cose, ma le identifica facendo riferimento ai colori. Il ricorso cromatico, dunque, da parte dell'autore, è utile per dare un ritratto non solo dei personaggi, ma anche delle sensazioni. Il blu, infatti, è ad esempio il colore principale, quello che ritorna spesso all'interno del racconto e che identifica la voglia del narratore, ossia quella di scrivere. Mentre il giallo, invece, simboleggia un'aspirazione più sociale e mondana, richiamando i colori chiari che caratterizzano la famiglia dei Guermantes (capelli biondi, occhi chiari, tratti tipici della cosiddetta "razza ariana", per intenderci). Ed il giallo, inoltre, è il colore dell'oro, dell'opulenza, del benessere, e torna sempre in relazione alla preziosità, ad un "senso di nobiltà", come sostiene la Marangoni, la quale conclude dicendo: "In Proust è citato soprattutto - il giallo - in relazione al desiderio di divenire, di imporsi".
Incontro eccellentemente condotto e moderato da Paolo Di Paolo, si è concluso con l'invito, da parte di tutti i partecipanti, alla lettura della "Recherche", perché è vero che ogni libro ha il suo tempo, ma questa è una lettura da cui davvero non è possibile prescindere.
Stupore garantito.

Giulia Ciarapica
Civitanova Marche
31 luglio 2014



mercoledì 30 luglio 2014

Massimo Fini e Oriana Fallaci: il ricordo di un carattere dolcemente "impossibile"

Pur non condividendo interamente le posizioni espresse nell'intervista (soprattutto quelle dell'intervistatore), riporto qui di seguito il ricordo di Massimi Fini riguardo Oriana Fallaci (l'intervista è riportata integralmente su www.cristianolovatelliravarinonews.com). Massimo Fini contribuisce al ricordo della giornalista toscana, regalandoci un ritratto di Oriana che, ad ogni modo, ben coincide col suo carattere "impossibile". Rimane comunque il fatto che la Fallaci sia stata, e sempre resterà, una delle voci più esilaranti e geniali del giornalismo italiano.






Domanda: Parlando di chi è riuscito a non scomparire ma è diventato mito, mi ha colpito scoprire in certe sue foto giovanili vedere quanto la Fallaci fosse avvenente e sexy (meno affascinanti gli ambienti vorrei-ma-non-posso delle sue case). Un discorso sul giornalismo italiano non può non partire da lei.


Risposta: “Io l’ho conosciuta e frequentata non più giovanissima, sui quaranta. Era una donna già profondamente segnata dal tempo, però ancora molto affascinante. Io arrivavo all’Europeo dall’Avanti, per me era come traslocare in un mito, tutti questi colleghi che hanno coraggiosamente girato il mondo. Mi dicevo: sarà come assidersi alla tavola rotonda. Invece con mio sbigottimento mi resi conto che l’unica cosa che amavano - o di cui amavano parlare - erano i migliori alberghi, i migliori ristoranti, e le migliori…puttane.”


D: E la Fallaci?


R: “Ecco, con la Fallaci quando andavi a pranzo - allora stava con Panagulis e forse umanamente fu il suo periodo migliore - non avevi bisogno della CNN, tanto era multiforme e catturante l’universo di cose di cui ti parlava..”


D: Infatti qualcuno ha detto che come affabulatrice era quasi meglio che come scrittrice. Poi però ti chiese di scrivere la sua biografia per i lettori che la reclamavano e tu sfornasti un tale capolavoro che lei si ingelosì e ruppe i rapporti con il pretesto di una…virgola.


R: “No, non era gelosia, era una forma di perfezionismo..”


D: Maniacale.


R: “Una forma di perfezionismo. "Il tuo pezzo è bellissimo" mi disse "ma questa virgola fuori posto lo rovina, io la estrarrei come un bisturi estrae un tumore da un corpo perfetto"….Beh, insomma, su un qualcosa di delicatissimo come scrivere all’Oriana la sua vita non le andò bene una virgola.

Lo considerai un complimento immenso.”


D: E a parlarle intimamente?


R: “A parlarle confidenzialmente era un continuo fuoco d’artificio, direi meglio uno scoppio nucleare di aneddoti, ritratti fulminanti, urlacci, intuizioni scorticanti….


D: Come dicevo prima, ancor meglio come affabulatrice che come scrittrice.


R: “Penso che a dirglielo uno avrebbe rischiato la pelle. Non a caso lei parlava di Santa Carta Scritta.

Il testo è tutto, il testo è il Vangelo. Avemmo un bellissimo periodo. Prima che impazzisse.”


D: So che a venire querelata si atteggiava a lesa maestà alla Regina, a Santa Giovanna d’Arco mandata al rogo. Poi però era lei la prima a querelare mezzo pianeta. Persino te, l’ex biografo amico, per un ritratto che le facesti, anche quello bellissimo. Ma non apologetico.


R: “ Ma infatti. Evidentemente ormai non era più in grado di sopportare neanche un alito di vento.

Il mio in realtà era un ritratto dolce, in fondo affettuoso, anche se chiunque di noi non può - oltre le luci - non presentare qualche ombra. È chiaro che non potei non alludere, ad esempio, al suo carattere infernale. Mi fece quasi pena.”


D: Perché?


R: “ Perché in modo artigianale si scrisse lei stessa nella querela la memoria difensiva d’accusa..”


D: Sarà stata una requisitoria terribile.


R: “No perché ormai - povera Orianina- non c’era più, scordava le cose, si dava la zappa sui piedi. Se non fosse morta il processo l’avrei vinto a mani basse. Avrei scritto un libricino, magari un po’ perfido, intitolato "Massimo adversus Oriana", con le esilaranti testimonianze dei testimoni o il grottesco di una udienza rimandata ad anni a venire con l’ Orianina, ormai ridotta al lumicino..”




{...}


D: Ma è vero, tornando alla Fallaci, - il mito è stato talmente incensato che possiamo con affetto soffermarci anche su qualche umana debolezza - che l’Oriana ogni volta che telefonava, ad esempio a Feltri, faceva finta cadesse la linea per farsi ritelefonare e non appesantire la bolletta ?


R: “È verissimo. Sai, era toscana. Non tutti, ma c’è una genìa di toscani avari marci, attaccati allo spillo. Mi diceva Davide Lajolo che quando andava a cena con Curzio Malaparte, che io considero il più grande di tutti…”


D: Concordo. È giornalismo che pur essendo preciso e cronachistico si elèva ad altissima letteratura….


R: “…il conto, con mosse quasi da prestigiatore, a poco a poco Malaparte lo avvicinava al suo piatto dimodochè al povero Lajolo toccava pagare ogni volta. Ma il dato più sconvolgente non è l’ avarizia ,ma la solitudine della Fallaci. Mi chiedo quanto dovesse sentirsi sola per ridursi a telefonare spesso a Vittorio Feltri. “


D: C’è di peggio. Telefonava spesso a Castelli.


R: “Il giudice Caselli?”


D: Eh magari, no l’ex Ministro leghista di Giustizia Roberto Castelli…telefonava a Castelli spessissimo per avere aggiornamenti giuridici sull’islam… con tutto il rispetto, come fonte non mi sembra il massimo..ma la cosa interessante è che gli faceva giurare per iscritto di non rivelare queste sue telefonate! Il mito, alla costruzione del proprio la Fallaci si dedicò fino all’ultimo respiro, non si fa mai vivo.


R: “Finì sola ,solissima, povera Orianina. A proposito di mito penso lo fossero in parte anche le sue osannate interviste politiche - fatte per illuminare più sé che chi intervistava. Io gli ho sempre preferite le prime, quelle agli attori, alla gente di spettacolo.”


D: Ne ricordo una prodigiosa a Pietro Germi, in cui va avanti, e in modo avvincente, per cinque cartelle, solo descrivendo come il regista si rifiutava di rispondere al telefono o di aprire la porta.

In quanto alle altre…giù il cappello ovviamente, ci inginocchiamo, sono nella Storia. Però...però La sua manipolazione - non voglio dire falsificazione -, il suo espediente - non voglio trucchetto -, molti elementi fanno pensare consistesse nell’essere testuale nelle risposte, ma autocelebrativa nelle domande. Insomma, un conto è dire:”Signor Presidente qualcuno ipotizza lei sia duro con l’opposizione", un altro è sbobinare la domanda teatralizzandola in:"Come fa un lurido orrendo sporco dittatore come lei a tenersi l’anima in pace con le galere gonfie di cadaveri ??!”. Nessuno dei testimoni dell’intervista a Khomeini vide il famoso schador rabbiosamente gettato via e nessuno dei testimoni dell’intervista a Kissinger persino ricorda la famosa frase del Cowboy che solitario spiana al popolo la democrazia….a chi smentiva, soprattutto ripeto il tono delle sue domande più che l’intervista ,(in America non a caso c’era chi la chiamava “Oriana the Fallacy””Oriana l’Inganno”) lei dava del farabutto, del mascalzone, del cagasotto, del senza palle, fors’anche del microfallico. Eppure le sarebbe bastato chiosare:”Signori alla Boston University, come tutti sanno, sono conservati sotto vuoto come reliquie i nastri delle mie interviste. Andateveli a risentire, teste di cazzo.” Ma, curiosamente, non lo fece mai. A maggior ragione però giù il cappello alla grande scrittrice.


R: “ Nelle interviste però, non certo nei romanzi. Purtroppo lei fraintese sciaguratamente un consiglio di Curzio Malaparte che aveva intuito il suo talento e che la esortò :”Orianina ricordati che un vero giornalista per essere tale scrive anche dei libri“, ma lui intendeva libri di saggistica non, certo romanzi. Lo stile della Fallaci, in effetti spesso folgorante nelle interviste, nei romanzi diventa stucchevole, melenso…il giornalista non è portato a essere uno scrittore, sono due stili che si elidono.”




D: Tranne clamorose eccezioni come Dos Passos ed Hemingway


R: “Eccezioni appunto.. e poi di scrittori che in fondo hanno forzato il proprio stile per diventare giornalisti. Da noi l’esempio maggiore rimane Dino Buzzati."

"Spirto guerrier ch'entro mi rugge" - una pagina Facebook dedicata alla Cultura

È nata da poco più di un mese questa pagina Facebook dedicata interamente alla cultura e che ha già cumulato la bellezza di 323 likes. Con pochi clicks è possibile navigare tra recensioni letterarie, suggerimenti e consigli di lettura, nonché avere la possibilità di leggere estratti di brevi racconti correlati da immagini scattate amatorialmente. La pagina dà inoltre l'opportunità, a tutti coloro che volessero approcciare con questo affascinante mondo letterario, artistico e cinematografico, di avere un semplice e diretto, nonché immediato, rapporto con la cultura: immagini, video musicali, frammenti ed aforismi dei più grandi scrittori, poeti e giornalisti italiani. Tutto in una sola pagina.
Consigliatissimo. Da seguire! 


martedì 29 luglio 2014

Indro Montanelli e il ricordo di Massimo Fini

Da un'intervista a Massimo Fini, apparsa su www.cristianolovatelliravarivonews.com, il ricordo di Indro Montanelli, a riprova della grandezza di un giornalista. il Giornalista.

Domanda: Come il tuo maestro Montanelli faceva e il tuo ideale giornalistico Curzio Malaparte suggeriva, tu scrivi anche libri, libri di storia - ho letto d’un fiato "Nerone" - ma a differenza di Montanelli, che spalmava di esilaranti battute un materiale orecchiato da altri, tu arrivi a fare le pulci e a riflettere sull'intero asse storiografico dell’argomento di cui ti stai occupando.

Risposta: “ Beh, "Nerone" mi è costato quasi tre anni di lavoro.”

D: Non è un pamphlet.

R: "Non è un pahmplet. Certo io non sono uno storico di quelli che addirittura riescono a creare le proprie stesse fonti con scoperte d’archivio, ma le fonti le ho sondate tutte e per quello che ho potuto ho fatto anche ricerche personali... Montanelli tirava via dato anche il numero elevatissimo di tomi (...) compensando con il suo geniaccio toscano..”

D: Non si è mai capito come mai si fosse messo accanto allora uno sconosciuto come Roberto Gervaso. Molti ipotizzarono l’unica spiegazione possibile fosse che era suo figlio, un figlio naturale.

R: “È vero, lo si disse…certo gli assomiglia poco. Nell’aspetto. E soprattutto nell’intelligenza “

D: Della trimurti Montanelli-Bocca-Biagi è rimasto solo Bocca.

R: “Biagi era uno con cui potevi parlare solo di mestiere, non conosceva altro. Giorgio è uno che se gli si apre la botola dell’esistenziale cerca di evitarla, ma poi ci cade inevitabilmente e gustosamente dentro. Montanelli…Montanelli era come digitare l’Universo. Io non ho mai trovato un solo argomento in decenni di frequentazione su cui non sapesse o non mi sorprendesse.”

D: Sarà cronaca rosa, ma è stato anche uno dei più grandi amanti del secolo. Centinaia di amanti su cui ha sempre steso un immenso velo signorile. No, dico: parliamo di uno che quando la regina Maria Josè si ruppe le palle del Re - se mi passi la metonimia -, fuggì con lui. E non lo ha mai rivelato a nessuno, anche se una ristrettissima cerchia lo sapeva.

R:
“Era anche un uomo di suprema eleganza. Non solo affettivamente con le donne ma anche deontologicamente con i collaboratori. Quando scrissi per la Mondadori un libro “Il Conformista “ -che in realtà era una raccolta di miei pezzi polemici scritti tra gli anni ottanta e novanta - alla Mondadori mi dissero "Qui ci vuole una introduzione di peso, di Montanelli". Io della leggenda di Fucecchio avevo un timore reverenziale, gli davo del tu come si fa fra colleghi , ma era un tu intimidito ed onorato.. Vado da lui con la tremarella e balbetto: "Direttore è ancora peggio di quanto pensi, non ti chiedo una recensione al mio libro ma addirittura l’introduzione..” . Non mi fece quasi finire : “Certo. Te la devo. Sono in debito". Ma come in debito, semmai in debito ero io che mi permetteva di collaborare con lui! Due giorni dopo la splendida introduzione di Indro era già sul mio tavolo. Diceva di essere in debito lui a me, che potevo solo ringraziarlo. Questo in un mestiere che se chiedi a qualcuno, a cui hai magari salvato la pelle, un caffè te lo fa pesare.”

L'ascensore - di Giulia Ciarapica . Istantanee con andamento lento e tumultuoso

"Quel poco di buono che Matilde era riuscita a vedere in un uomo tanto diverso da lei, ma allo stesso tempo così simile, a tratti identico, era svanito nel giro di qualche secondo. Matilde oscillava tra l'essere spietata, sentendosi completamente sicura di sè, e l'essere accondiscendente e accattivante: era una di quelle donne apparentemente tutte d'un pezzo, algide, fredde, prive di emozioni, ed era così che lei, sostanzialmente, amava dipingersi. Il cuore, a volte, avrebbe preferito non averlo, o l'avrebbe barattato molto volentieri con qualcosa di più utile, un altro cervello magari. La sua parte razionale, quella tutta dedita alle spiegazioni logiche, quella parte che tentava ogni volta di trovare un perché anche dove un perché non c'era, proprio perché non doveva esserci, insomma, tutta quella parte puramente scenica, la stava distruggendo piano piano, dolcemente, amabilmente, silenziosamente. La sua sensibilità, il suo romanticismo, vivevano e coltivavano la loro solitudine all'ombra della ragione, quella stessa ragione che puzzava di muffa, di cibo andato a male.
E poi c'era lei, la Matilde irruente, la Matilde passionale, la Matilde forte, quella che viveva di prepotenza, presunzione e arrischiava, osava, si dimenava per ottenere ciò che voleva. E lo otteneva. Ecco, quella Matilde era Andrea. O meglio, Andrea somigliava proprio a quella Matilde lì, quella che non voleva rivali. La prima donna cui nessuno doveva permettersi di rubare il ruolo.
Due Andrea? O due Matilde? "

Racconto breve dai toni spensieratamente inquietanti. Per leggerlo tutto vai su: www.sistafacendosemprepiutardi.wordpress.com

Giulia Ciarapica

lunedì 28 luglio 2014

I disegni della stanchezza su carta straccia, di Giulia Ciarapica - Racconti brevi per lunghe dissertazioni

"La sveglia suonava alle sei, ma il silenzio delle cinque la destava ogni volta. Aveva preso confidenza con quell'ora blanda, le piaceva. Che fuori ci fossero il sole, la pioggia, le nubi, la nebbia, il temporale, quella rimaneva comunque l'ora perfetta: tutto era ancora indecifrabile, promessa dell'avvenire, soffice protezione dalla realtà.
Anche quella mattina Katia aprì gli occhi. La luce si intrufolava tra le fessure delle persiane. Calda e ben augurante, le accarezzava il polpaccio, la coscia, il fianco sinistro.
"Sopravvivere con nonchalance..."
Katia disegnava pensieri di velluto da cucirsi addosso, non voleva ammettere a se stessa che la sua bellezza opaca e dimessa era frutto di una stanchezza senza precedenti, alla quale ogni mattina si abbandonava, cercandone il perché. 
Giorgio riempiva ogni angolo della sua vita accartocciata. 
Arrancava, all'albeggiare di ogni nuovo giorno, nel tentativo di trasformare la spossatezza di vivere in armonia da rassegnazione.
"Sopravvivere con nonchalance... Con nonchalance. Non è poi così difficile..."

Questo l'incipit del racconto, commovente e scritto con grande partecipazione emotiva. 
Per tutti coloro che volessero leggerlo interamente, basta andare su :

www.sistafacendosemprepiutardi.wordpress.com

Giulia Ciarapica

sabato 26 luglio 2014

Futura Festival - Di Paolo e De Stefano per Montanelli e Fallaci

Futura Festival
Civitanova Marche
25 luglio 2014

È stata una serata all'insegna del ricordo e della memoria quella che ha visto ospiti al Futura Festival di Civitanova Alta Paolo Di Paolo e Cristina De Stefano, autori dei libri Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c'era e Oriana. Una donna.
A seguito dell'introduzione all'evento da parte del direttore artistico Gino Troli, l'incontro è stato diretto e gestito dal giovane scrittore romano, il quale parla del suo libro su Indro Montanelli ed intervista, al contempo, Cristina De Stefano, autrice della biografia su Oriana Fallaci. Due giganti del giornalismo italiano raccontati da due penne eleganti ed appassionate, oltre che appassionanti. 
Durante la conversazione vengono riportati alla luce i momenti salienti del percorso dei due "toscanacci", i quali sembrerebbe abbiano avuto un rapporto di amore-odio, fattosi ancora più intenso per via della stima reciproca. 
Indro Montanelli, fondatore del Giornale, ideatore della Storia d'Italia, giornalista di cui Massimo Fini, ex allievo, ha detto:"Montanelli...era come digitare l'Universo", fu un grande giornalista e soprattutto un grande Uomo, un intellettuale a tutti i livelli, capace di tornare sui propri passi qualora fosse necessario, ammettere i propri errori, ma anche diventare quella Voce fuori dal coro che menava duro, in un modo, spesso, considerato "politicamente scorretto".
Oriana Fallaci, irriverente, focosa, temuta e criticata, osannata, amata, odiata e invidiata, ma che nel privato si rivelava fragile ed insicura. Una Donna-uomo che seppe fare della propria vita una battaglia senza fine. Scrittrice oltre che giornalista, viene ricordata dalla De Stefano come un personaggio su cui si è molto dibattuto, che ha fatto parlare di sè anche dopo la morte. 
Due libri simili ma diversi, accomunati dal fatto di aver descritto, se pure con modalità differenti, due storici personaggi del giornalismo italiano. I Personaggi, che hanno fatto la Storia. Se quella di Cristina De Stefano è una biografia definita dall'autrice stessa come "classica", quella di Di Paolo non è una vera e propria biografia, non è neanche un romanzo, ma nemmeno un saggio critico o storico a tutti gli effetti. Si tratta piuttosto di un racconto lungo che ha lo spirito di un saggio narrativo, il quale serve soprattutto a capire determinate cose. Una sorta di "ibrido" in cui Di Paolo stesso è presente, vivo nelle pagine, tra le righe, mentre ricorda e racconta l'idolo di sempre.
Serata inaugurale del festival conclusasi con successo. E con tutte le speranze.

Giulia Ciarapica, Civitanova Marche, 26 luglio 2014

giovedì 24 luglio 2014

L'isola di Elsa Morante - cuore a cuore


Elsa Morante
L'isola di Arturo
Einaudi, 1995
398 pp.

Era un afoso lunedì di luglio, uno di quei lunedì senz’arte né parte, appiccicoso e fastidioso anche se non devi lavorare, anche se non devi andare a scuola. Era un lunedì, e, come tutti i lunedì, aveva l’odore dell’inutilità.
Mi svegliai con un lieve giramento di testa: quel sole acerbo di sicuro non mi invogliava ad uscire, perciò presi il mio pacco di biscotti secchi, passai dal letto al divano e iniziai a sgranocchiare riflettendo su come avrei ammazzato quel tempo estivo che sembrava non avere mai una fine.
Odiavo l’estate con quell'incedere sinuoso e spavaldo, incurante del malessere altrui. Qualche temporale, di tanto in tanto, riusciva  a farla incespicare, ma, ahimè, durava lo spazio di un sospiro. Di gioia, chiaramente.
Mentre la pancia e il cuscino si riempivano di molliche, guardando davanti a me esaminavo con un’attenzione minima i libri esposti sullo scaffale.
Avevo dato vita ad una vera e propria biblioteca, racchiusa tra le quattro mura di casa mia, della quale andavo particolarmente fiera. Impiegando esattamente 8 ore, 45 minuti e qualche manciata di sorrisi stupefatti (non sempre ricordavo di avere alcuni testi in mio possesso), avevo sistemato sugli spaziosi scaffali color cognac tutti i libri che avevo: ultimo scaffale a destra, filosofia e classici, a seguire, giapponesi, cinesi, indiani, messicani, mitteleuropei, francesi, inglesi. Uno scaffale per la critica letteraria, quello bisognava dedicarglielo tutto. Uno per la teologia, uno per la letteratura americana – di cui non andai mai pazza – ed infine uno per il teatro, il cinema e la poesia.
Quella che mi stava dinanzi, invece, era la parete dedicata agli scrittori italiani. Tomasi di Lampedusa, Calvino, Malerba, Moravia, Malaparte. Tutti letti. E allora Deledda. Letta. Tabucchi? Troppo lugubre.
Morante. Elsa Morante.
“Mh…”
Menzogna e sortilegio. No, è scritto troppo piccolo. La Storia. No, decisamente troppo grande  per un lunedi di luglio. L’isola di Arturo. “Ah, mica male. Fammi un po’ vedere…” borbottai tra me e me.
“Un’iniziazione alla vita attraverso tutti i suoi misteri”. Premio Strega 1957. Andata.
Rigirai il libro tra le mani, una due tre volte, lo aprii e scorsi le pagine col pollice. Mi piaceva proprio, profumava di fresco.
Tornai a sedermi calpestando le briciole dei biscotti che avevo fatto cadere a terra.
Introduzione: “Dal proprio lettore, come dal proprio critico, Elsa Morante si aspetta un rapporto diretto e frontale. Desidera essere riconosciuta subito in viso, da sguardi che non s’attardino a spiarla attraverso lenti o schermi”. L’introduzione di Garboli, fin dalle prime righe, mi rapì con una certa inaspettata foga. La stessa foga con cui ingurgitai i primi capitoli di quel capolavoro fino ad allora per me sconosciuto.
Fuori l’estate imperversava, quel piacevole e salvifico venticello che ci aveva accompagnati fino a pochi giorni prima aveva preso congedo, lasciandoci in balìa di una prepotente cappa di umidità, e dunque la cosa che mi riusciva meglio fare era godermi quel sole caldo e discreto che spuntava fuori dalle pagine del mio libro, quel mare delicato e sottile che avvolgeva il corpo del protagonista, Arturo.
“Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome. Avevo presto imparato, che Arturo è un stella: la luce più rapida e radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale!”. Che piglio spavaldo, questo giovanotto di Procida! “Gagliardo”, pensai.

E fu così che, rapita dalla mestrìa di una donna dallo sguardo severo e malinconico, dalla sua penna elegante e garbatamente intensa, finii il libro in tre giorni. Fu qualcosa di inevitabile, necessario, sublime. Immenso.

Di questo libro non si può parlare, non se ne possono descrivere a parole le infinite bellezze, i colori ammalianti, gli odori accattivanti, mescolati alle gioie e ai dolori di una famiglia tanto devastata quanto unita. Solo assaggiando le pagine voluttuose, che valsero lo Strega alla Morante, di questo libro eterno, si può comprendere il regalo estremo che l'autrice fa ai propri lettori.
Aprite il cuore e l'anima, fatevi pervadere dall'incanto di Arturo.

mercoledì 23 luglio 2014

Oriana Fallaci vs Imam Khomeini: scontro fra titani. Chi l'ha dura la vince.

Che fosse un Donna coraggiosa, lo sapevamo, che fosse un Donna senza peli sulla lingua, anche, e sapevamo perfino che fosse una Donna audace e temeraria. Ma questa volta, ha davvero dimostrato di essere un uragano. Non una donna, ma una forza della natura. 
Oriana Fallaci, toscana per vocazione, giornalista di nascita, ottiene un'intervista con l'Imam Khomeini a Teheran. Siamo nel settembre del 1979 e la scrittrice occidentale accetta di indossare il chador durante l'incontro. 
Dopo una lunga prefazione all'intervista, comparsa per la prima volta sul Corriere della Sera, in cui Oriana tratteggia i lineamenti di un uomo molto vecchio, dal fanatismo esasperato ed esasperante, tiranno quanto basta per assomigliare, di fatto, al precedente Scià (il quale venne apostrofato dalla Fallaci, nel 1973, come "figlio di cane"), viene riportato il colloquio - o piuttosto si dovrebbe parlare di scontro - tra l'Imam e Oriana Fallaci.
Oriana, informatissima e severa, inizia le sue domande: come mai in Iran, paese ormai nelle mani di Khomeini, non c'è libertà? perché l'Imam incute timore alla gente? cosa intende Khomeini per democrazia? e per libertà? come mai è stata cancellata la parola "democratico" accanto al termine Islam? Insiste ribadendo concetti che Khomeini spiega a malapena, cosciente del fatto che questa donna sta osando troppo, sta paragonando l'Islam dell'Imam Khomeini al Fascismo italiano di Mussolini, sta tacciando di tirannia colui che il tiranno aveva sconfitto, sta insultando e contraddicendo le scelte culturali di un paese che nulla ha a che vedere con l'Occidente - Allah ce ne liberi! L'ironia ed il sarcasmo che Oriana usa in modo incalzante, mentre porta l'Imam all'esasperazione, innervosiscono Khomeini, che getta lampi di fuoco con lo sguardo. Oriana, per nulla intimorita, anzi, ancora più innervosita da quest'uomo così bieco e ottuso, che non aveva fatto altro che sostituire la sua tiranna a quella dello scià, chiede se si può parlare di Giustizia quando si ordina di far fucilare una prostituta o una donna che tradisce il proprio marito o un uomo che ama un altro uomo. "Se un dito va in cancrena cosa si deve fare? Lasciare che vada in cancrena tutta la mano e poi tutto il corpo oppure tagliare il dito? Le cose che portano corruzione a un popolo intero devono essere sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano". Ecco la risposta, ingenuamente lapidaria, di Khomeini. Quindi è giusto che poveri diciottenni in cinta vengano fucilate, o che anche i curdi che vogliono l'autonomia vengano fucilati, o perfino che vengano uccisi i curdi che distribuiscono volantini comunisti? è giusto quindi? qual è il significato di Giustizia? e quale, ancora una volta, quello di libertà, Imam? E scusi, Imam, ancora una domanda: 
Di questo "chador", ad esempio, che mi hanno messo addosso per venire da lei e che lei impone alle donne, mi dica: perché le costringe a nascondersi come fagotti sotto un indumento scomodo e assurdo con cui non si può lavorare nè muoversi? Eppure anche qui le donne hanno dimostrato d'essere uguali agli uomini. Come gli uomini si sono battute, sono state imprigionate, torturate, come gli uomini hanno fatto la Rivoluzione...
Le donne che hanno fatto la Rivoluzione erano e sono donne con la veste islamica, non donne eleganti e truccate come lei che se ne vanno in giro tutte scoperte trascinandosi dietro un codazzo di uomini. (...)
(...) Non è vero Imam. E comunque non mi riferisco soltanto ad un indumento ma a ciò che esso rappresenta: cioè la segregazione in cui le donne sono state rigettate dopo la Rivoluzione (...)
Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non la riguardano. Se la veste islamica non le piace non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene. 

E così, senza batter ciglio, quasi aspettasse una simile provocazione, Oriana, con un gesto di stizza, si toglie il chador: "Molto gentile. E, visto che mi dice così, mi tolgo subito questo stupido cencio da medioevo. Ecco fatto. Però mi dica: una donna che come me ha sempre vissuto tra gli uomini mostrando il collo e i capelli e gli orecchi, che è stata alla guerra e ha dormito al fronte con i soldati, è secondo lei una donna immorale, una vecchiaccia poco perbene?"
Inutile dire che ne nacque un terribile parapiglia. Khomeini, non accettando di continuare un'intervista con una donna tanto insolente quanto priva del chador, abbandona la stanza, e Oriana protesta perché non ha potuto concludere la sua intervista.

Se avessero raccontato in qualsiasi altra parte del mondo che nel 1979, una giornalista italiana di nome Oriana Fallaci, alta 1.55m, esile di corporatura, fosse riuscita ad intervistare, lei donna, l'Imam Khomeini, e che, toltasi  sgarbatamente quel "cencio da medioevo" che loro chiamano chador, lo avesse fatto indispettire a tal punto da farlo scappare, beh, nessuno c'avrebbe creduto.
Così fu.
Forse, non è un caso se perfino Indro Montanelli ebbe a dire di lei: "Se Oriana volesse fare un'intervista a Dio, gli chiederebbe la carta d'identità. Dopo di che Dio non avrebbe bisogno di chiedere la carta d'identità a Oriana Fallaci. Certe domande può farle solo lei". 

Oriana, ieri oggi sempre. Insciallah!

martedì 22 luglio 2014

Fallaci vs Kissinger: scontro fra una grande donna e un piccolo uomo


"Questo cinquantenne con gli occhiali a stanghetta, dinanzi al quale James Bond diventava un'invenzione priva di pepe. Lui non osava, non faceva a pugni, non saltava da automobili in corsa come James Bond, però consigliava le guerre, finiva le guerre, pretendeva di cambiare il nostro destino e magari lo cambiava. Ma insomma, chi era questo Henry Kissinger?"
È così che Oriana Fallaci esordisce descrivendo la sua intervista ad Henry Kissinger. Nel novembre del 1972 gli chiese un'intervista e lui, con grande stupore di Oriana, le rispose dopo soli tre giorni in modo affermativo. Intervista concessa. Salvo ritrattare in seguito: ad una condizione, e cioè che prima fosse lui a rivolgerle alcune domande, per assicurarsi di colloquiare con la persona giusta. Oh, Kissinger, che grave errore. Oriana non era certo la persona adatta con cui "colloquiare", almeno non nel modo in cui sperava il segretario di Stato americano, nonché artefice della politica estera di Nixon.
Kissinger rivelò alla Fallaci di essere rimasto colpito dalla sua intervista al generale Giáp. Già, perché Oriana, con il Vietnam, germogliò come corrispondente politica e da quel momento in poi fiorì la carriera che aveva sempre desiderato, così come fiorirono e si moltiplicarono le sue interviste con la storia.
Tra le tante proprio quella con Henry Kissinger le diede una popolarità internazionale, e proprio grazie a questa intervista Oriana confermò di essere LA giornalista - donna, e non è un particolare trascurabile - più temuta dell'epoca, col suo carattere fermo e volitivo, le sue domande piccanti e fastidiose, le sue lapidarie battute e i suoi sferzanti giudizi. 
Il problema, come sostiene anche la De Stefano nel suo libro su Oriana Fallaci (Oriana. Una donna, Rizzoli, 2013), era che Kissinger non le piaceva affatto. Nell'introduzione all'intervista, infatti, la Fallaci delinea un ritratto di "Henry" presentandolo agli occhi del mondo come un uomo di ghiaccio al quale Nixon diceva sempre di sì: una specie di "balia mentale", come venne definito, del Presidente degli Stati Uniti.
Oriana, con pochi colpi di stupefacente maestrìa e genialità, demolì la fama di donnaiolo del segretario americano (in realtà le donne, che per lui erano solo un hobby, come ebbe a precisare lo stesso, scarseggiavano), nonché la fama di essere uno degli uomini più intelligenti del pianeta, sostenendo che, invece, di intelligenza ne usava poca, perché "ai Capi di stato non serve. La dote che conta nei Capi di Stato", usando le parole di Kissinger, "è la forza. Il coraggio, l'astuzia e la forza". Nulla di sconvolgente, dunque. Tanto che la Fallaci, senza batter ciglio - anzi innervosita di aver accettato di fare quell'intervista, da lei richiesta - tuonò: "Sta forse dicendomi che lei è un uomo spontaneo, dottor Kissinger? Mio Dio: se metto da parte Machiavelli, il primo personaggio con cui mi viene naturale associarla è quello di un matematico freddo, controllato fino allo spasimo. Mi sbaglierò, ma lei è un uomo molto freddo, dottor Kissinger". I peli sulla lingua Oriana non li aveva mai avuti, neanche di fronte al segretario di Stato americano, braccio destro (e pure sinistro) di Nixon, soprattutto se lo detestava.
Il motivo per il quale, tuttavia, quest'intervista diventerà la più famosa della Fallaci, consiste nella risposta che Henry Kissinger diede alla toscanaccia, la quale gli domandò:
"Suppongo che alla radice di tutto vi sia il successo. Voglio dire: come a un giocatore di scacchi, le sono andate bene due o tre mosse. La Cina anzitutto. Alla gente piace chi gioca a scacchi e si mangia il re"
"Sì, la Cina è stata un elemento importantissimo nella meccanica del mio successo. E tuttavia il punto principale non è quello. Il punto principale... Ma sì, glielo dirò. Tanto che me ne importa? Il punto principale nasce dal fatto che io abbia sempre agito da solo. Agli americani ciò piace immensamente. Agli americani piace il cowboy che guida la carovana andando avanti da solo sul suo cavallo, il cowboy che entra tutto solo nella città, nel villaggio, col suo cavallo e basta. (...) Insomma, un western".
Fu così che Kissinger, in tre semplici mosse, si giocò una reputazione, attirò su di sè le peggiori critiche dei giornali internazionali e contribuì ad aumentare la fama di Oriana, orribilmente infastidita, tra l'altro - come ebbe a ricordare lei stessa nell'introduzione all'intervista - , dalla monotona e fastidiosa voce del segretario: "Per tutta l'intervista non mutò mai quella espressione senza espressione, quello sguardo ironico o duro, e non alterò mai il tono di quella voce monotona, triste, sempre uguale. L'ago del registratore si sposta quando una parola è pronunciata in tono più alto o più basso. Con lui restò sempre fermo e, più di una volta, dovetti controllare: accertarmi che il magnetofono funzionasse bene".
Eccola: Oriana scandalosa, Oriana imprudente, impudente, sfacciata,tenace, dura. Oriana aggressiva, battagliera, volitiva, audace. Libera. Di dire ciò che pensava, di scrivere ciò che voleva. Vale a dire, la verità. Sempre e comunque la verità. Quella scomoda, quella che non fa dormire, quella che pesa sulla coscienza di chi una coscienza non sempre ricorda di averla.
Il tono perentorio e deciso di questa intervista, come di tutte le altre, aiuta a disegnare il ritratto di una Donna istintivamente geniale e superbamente accattivante. Da far paura.

Ricordare Indro Montanelli con un click

"Un esperimento per portare la lunga e avventurosa vita di Indro Montanelli in rete e sui social".
Questo è ciò che ha dichiarato di aver fatto Paolo Di Paolo, in collaborazione con Rizzoli: elaborare, nel giorno dell'anniversario della morte del Giornalista, una Pinterest board - con immagini, video e canzoni - nella quale è "riepilogata" l'intera vita del toscanaccio, morto il 22 luglio del 2001.
Un'iniziativa dal sapore fresco e che, allo stesso tempo, invita al recupero dei migliori ricordi, per chi Montanelli ha avuto il piacere di conoscerlo e leggerlo negli anni ruggenti, e aiuta i più giovani a conoscere ed avvicinarsi alla figura di un uomo tenace, audace e soprattutto libero. 
In una società in cui sempre di più ciò che conta non è essere ma apparire, il ritratto - già ben delineato da Di Paolo nel suo libro Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c'era , Rizzoli, 2013 - di un uomo che volle diventare, e diventò, la "voce fuori dal coro", del giornalista dal piglio autorevole, ma che sapeva anche essere spiritosamente ironico ed autoironico, dell'intellettuale che, con grande onestà e severità di giudizio, riconobbe i propri errori di gioventù ed ebbe il coraggio di fare sempre un passo indietro, laddove fosse necessario, diventa sostanzialmente una sorta di guida, un vademecum, che i contemporanei nel fiore degli anni possono (e devono) seguire.
La Pinterest board ideata da Paolo Di Paolo ospita una buona dose di immagini e video che riguardano Indro Montanelli, la sua città natale (Fucecchio), le sue interviste - spesso lapidarie e sferzanti- , il rapporto con Oriana Fallaci ("Indro e la Fallaci si amavano o si odiavano? Tutt'e due le cose insieme, come si conviene fra toscani"), il ricordo dell'esperienza in Africa e poi in Ungheria. 
Un lavoro ben architettato, d'impatto e che stabilisce un rapporto diretto e immediato con chi vi si approccia, proprio come avrebbe voluto Indro.

http://www.pinterest.com/900diMontanelli/il-novecento-di-montanelli/

lunedì 21 luglio 2014

"Adolphe", ovvero Della libertà malata.

Benjamin Constant
Adolphe
Edizioni clandestine, 2014
92 pp.

Cosa fareste voi se, una volta ottenuto ciò che avete desiderato per giorni, settimane, mesi, alla fine, con la stessa velocità di un batter di ciglia, vi rendeste conto che tutto questo vi annoia mortalmente? Cosa fareste voi se, in sostanza, d'un tratto aveste la netta convinzione che la conquista dell'amore della donna dei vostri sogni, in realtà si è rivelato semplicemente un capriccio? che in realtà di tutto si trattava tranne che di un vero proposito d'amore e fedeltà? E cosa fareste se la donna che ormai vive, dorme e respira con voi e per voi, si rifiutasse di venire abbandonata e minacciasse il suicidio ogni qual volta tentiate di allontanarla? 
Questo è esattamente ciò che accade ad Adolphe, l'eroe ambiguo e affascinante, protagonista del breve capolavoro di Benjamin Constant.
Adolphe, ventiduenne al termine della carriera universitaria, è il tenebroso e scostante giovane che, abbagliato egli stesso dal proprio splendente e cupo personaggio, vizia la sua anima con piccole ma acute dosi di superbia, alternate alle frequenti visite della timidezza, compagna angosciante di gioventù. Adolphe coltiva la solitudine in quanto panacea di tutti i mali, tuttavia questo stile di vita così riservato e acerbo non gli consente di far germogliare quel sano egoismo che sorge, generalmente, in modo spontaneo : "sebbene fossi coinvolto in me stesso, anche di me mi occupavo assai fiaccamente". Il disinteresse profondo verso qualsiasi cosa lo circondi è ravvivato dall'idea della morte, con cui Adolphe è costretto a confrontarsi in ogni momento della propria esistenza, una sorta di ossessione che non gli permette di provare spinte vitali per il raggiungimento di alcun tipo di fine o scopo. "In poesia, leggevo prevalentemente ciò che rammentava quanto breve fosse il nostro esistere e così ritenevo non esserci traguardo che meritasse alcuno sforzo per il suo raggiungimento".
Ad un occhio esterno, l'estenuante percorso biografico che Adolphe ha disegnato su di sè sembra già terminato: non certo per l'approssimarsi di una morte imminente, quanto piuttosto per il fatto che il giovane, a soli ventidue anni, appare già quanto di più terribilmente maturo ci sia nell'universo umano, costellato, nella sua visione, di deboli intermittenze atte a formare un sentiero che porterà alla tomba. Tutto sembra dunque già prescritto, fino a quando un giorno, memore forse di quella piacevole superbia che si cela dietro il petto infiacchito, Adolphe incontra Elléonore, l'affascinante amante del conte di P***, la quale, egli decide, in barba all'età - o forse proprio come stimolo aggiuntivo - , di conquistare.
Elléonore ha molti anni più di lui, una vita tormentata alle spalle, e qualche remora di troppo. Non ha la spensieratezza dei vent'anni, la freschezza di un passo leggero e divertito, la piacevole ansia creata dalle aspettative, nè tantomeno possiede l'istintiva gioia di guardare ad un futuro radioso. Le rimangono una manciata di serenità che il conte di P*** le ha prestato per qualche anno, la bellezza dell'età matura e poche briciole di ricordi. Elléonore vive immersa in una spenta sicurezza, mentre Adolphe, sotto quel manto di mortale malinconia con cui si difende dal vento gelido della felicità, nasconde un fremito di vita che metterà a soqquadro anche l'esistenza della donna. "La convinzione di aver trovato l'essere che il destino ci ha assegnato, l'improvvisa luce che, inondata la vita, pare svelarcene ogni segreto, il valore prima a noi ignoto attribuito alle minime circostante, le ore rapide, (...) lasciano un'interminabile scia di felicità, l'allegrezza inspiegabile che, talvolta immotivata, si mescola alle abituali tenerezze, il piacere dell'essere in sua compagnia e, in sua assenza la forza della speranza, (...)". 
Si parla, appunto, di "convinzione". La convinzione iniziale, quella che porta Adolphe a gettarsi a capofitto nella conquista spietata di una donna già ufficialmente impegnata, quella che gli fa dimenticare la sua natura di lupo solitario, quella convinzione che gli annebbia la vista e lo illude, rivelandosi solo alla fine essere una prepotente voglia di soddisfare la propria vanità di uomo.
Il tempo scorre, Elléonore abbandona tutto per lui, mette a rischio una reputazione già barcollante, gli sacrifica un figlio e un compagno devoto, perde la propria dignità di Donna per amore. Ma Adolphe, scemato l'entusiasmo iniziale, avvertendo un malessere di fondo che lo vincola a quella prigione dorata, da lui stesso fortemente voluta, decide di allontanarsi da lei.
Inutili i tentativi di abbandono, vane le speranze di liberarsi di quella donna, divenuta incomprensibilmente un peso estremo per lui. I ripetuti atti di squilibrio mentale di Elléonore, i sensi di colpa e la debolezza psicologica di Adolphe, saranno gli elementi chiave che porteranno alla distruzione completa di un rapporto d'amore e odio che vedrà la sconfitta della donna, morta di dolore e pazzia, e l'insoddisfazione perenne di un giovane uomo che, dalle ceneri di una storia finita, vedrà nascere una libertà fasulla, libertà che mai lo priverà del rimorso e della tristezza.
La storia di un amore infelice, di un amore sbagliato fin dal giorno in cui è germogliato, di un amore senza età e senza ragione.
Romanzo scritto di getto nel 1806 - ma pubblicato solo nel 1816 - , "Adolphe" ospita nelle sue appassionate pagine una modernità che odora di eterno: con un gergo semplice, amabile ed elegante Benjamin Constant ha dato prova di grande maestrìa nel delineare i profili di due protagonisti tanto crudeli quanto reali. La storia, non necessariamente originale ma superbamente elaborata, acquista un maggiore piglio di freschezza e, appunto, di modernità, se confrontata con l'analoga vicenda de "Il diavolo in corpo" di Raymond Radiguet: scritto nel 1923, quest'ultimo romanzo, pur descrivendo un amore altrettanto infelice quanto anagraficamente distante (lei diciannove anni, lui quindici), non possiede tuttavia il pathos che permea il testo di Constant. Unico nel suo genere, "Adolphe" tocca le corde più intime di un animo in pena, in bilico tra la necessità di vivere e la voglia di abbandonarsi alla più bieca voracità della morte.
"Distratto, svagato, tediato, non avvedendomi dell'impressione da me destata, dividevo il mio tempo tra studi che interrompevo di sovente, propositi che disattendevo, piaceri che non trovavo tali, quando una circostanza, a prima vista assai frivola, produsse nella mia disposizione d'animo un inatteso mutamento". 

venerdì 18 luglio 2014

Giorgio De Rienzo: il dolore di amare

Il racconto tragico e sofferto di una vita intera in lotta con la depressione. Giorgio De Rienzo ci dà un affascinante quanto doloroso saggio di cosa significhi affiancare la persona amata durante il periodo della depressione, e della sua inevitabile vittoria. 

Per leggere la mia recensione vai su www.sololibri.net all'indirizzo:  http://www.sololibri.net/Il-dolore-di-amare-Un-intera-vita.html




giovedì 17 luglio 2014

Landolfi : un genio a margine

Tommaso Landolfi
Le due zittelle
Adelphi, 1992
114 pp.

Sareste in grado voi di spiegare qualcosa di incomprensibilmente affascinante senza scadere nella retorica di maniera? Tentando, altresì, di rendere partecipi milioni di lettori, di qualcosa che voi, e solo voi, avete inteso o provato in modo tanto crudele e atroce? Calvino, per esempio, lungi dall'incappare in un imbroglio simile, si è cimentato, fortunatamente per noi, nell'ardua impresa di invitare alla lettura del più strano, arzigogolato, chimerico e criptico autore della letteratura italiana del Novecento: Tommaso Landolfi. Lo fa scegliendo una serie di testi, i migliori a suo parere, e raccogliendoli in un'antologia, in cui sono compresi i racconti fantastici, quelli dell'orrido e anche i "racconti ossessivi". Perché Landolfi è così: fantastico, orrido, superbamente giocoso e altezzosamente lapidario.
Tra i testi raccolti da Calvino manca, però, quello che Landolfi stesso dichiarò essere "il mio miglior racconto" e che Montale definì "uno dei maggiori incubi psicologici e morali della moderna letteratura europea". Ebbene, "Le due zittelle" non ha la veste del classico racconto all'italiana, intriso di perbenismo anche quando si affrontano i temi più terribili, piuttosto è un fantasmagorico gioco di crudeltà e mediazione teologica, di mediocrità e fine grandezza psicologica. 
A partire dall'apparente tono confidenziale con cui l'autore si rivolge al lettore, richiamando la sua attenzione di tanto in tanto, come quando due vecchi signori appena andati in pensione si incontrano per strada e cercano di ammazzare il tempo raccontandosi avventure strabilianti ed inverosimili, così Landolfi procede spedito e sorridente nella narrazione di fatti che odorano di morte fin dalle più insignificanti descrizioni. Due zitelle, dal colorito simile a quello delle sorelle Materassi, vivono in uno sperduto paese dove "la cosiddetta vita moderna arrivava lì in forme blande, estremamente familiari oltreché bacchettonesche". Accudiscono una madre vecchia e in fin di vita che, senza perdere mai l'appetenza e quel fare autoritario tipico della ferocia umana quando naviga nella miseria dei sentimenti, le costringe ad una solitudine logorante tanto quanto lo sono i pastosi lamenti di dolore dell'anziana: "insomma alla vecchia non dispiaceva forse il suo male, in quanto le permetteva di continuar a esercitare il suo potere sulle figlie e sulla casa; è anzi da sospettare che ella, sentendo sfuggirle le forze, si fosse a bella posta appigliata all'unico mezzo che le restava per tenere in soggezione la gente attorno, si fosse, dico, a bella posta ammalata". 
È però solo al sopraggiungere della morte della madre delle due zitelle che entra in scena, finalmente, il vero protagonista della narrazione: la "scimia". Scelta non casuale di questo inusuale animale domestico che, con movenze simili a quelle umane, compie sfrenati e blasfemi cerimoniali nella cappella dell'attiguo monastero. La scimmia, animale comico per eccellenza, chiave che apre le porte dell'immaginario di un qualsiasi circo, tanto ridicola quanto scioccamente crudele, proprio come gli esseri umani, risulta migliore, nel celebrare messa, di tanti sacerdoti. Basta una scimmia, tanto brava, a fare le stesse cose degli uomini. Imitatrice perfetta dello spietato e infausto gioco della vita dell'uomo, gioco che, nella seconda parte di questo piccolo capolavoro, diviene sacro e pericoloso. Se ci si lascia guidare dal corso degli eventi, rimanendo incollati al foglio, mentre il nostro - ormai - amico Landolfi continua ad ammaliarci con il suo incredibile racconto, intriso d'angoscia e comicità, si giunge alla trasgressione finale, quella che arriva, inaspettata, dopo aver assistito a tanti piccoli incubi vestiti a mo' di letteratura. I due uomini di fede che compaiono alla fine, monsignor Tostini e il giovane padre Alessio, chiamati a giudicare l'operato della scimmia, si scontrano senza esclusione di colpi, così che il lettore può assistere alla più incredibile e fulminante delle dispute teologiche.
Autore di non immediata semplicità, al limite tra genio e sregolatezza, Landolfi misura con sapiente maestrìa il fantastico e l'assurdo, si affaccia - e lascia che siamo anche noi ad affacciarci - alla soglia dell'incomprensibilità, per poi, al momento opportuno, fare marcia indietro e sbattere sul foglio bianco quattro righe di nuda realtà, fresca, pulita e terrificante. È un tira e molla, un andirivieni di emozioni e sconvolgimenti che il lettore non allenato fa fatica a comprendere, a cui stenta ad abituarsi. Ritmo serrato, a tratti apparentemente conciliante, oltremodo sconcio e superbo.
Potremmo fare finta, come suggerisce Walter Pedullà, che la perplessità che ci imprigiona al termine della lettura sia solo un gioco, poiché, come sostiene lo stesso, possiamo fingere che per Landolfi il gioco sia tutto, o quasi. E così possiamo permetterci anche noi di giocare. Con lui e con le sue storie. Per chi è in grado di liberarsi dalle sue catene.

lunedì 14 luglio 2014

Per chi ricorda Indro Montanelli. {risposta all'articolo di Paolo Di Paolo sulla necessità di non dimenticare}

È vero, di Montanelli si parla poco, molto poco. Non se ne leggono più gli articoli, le Stanze sembrerebbero esser scivolate nel dimenticatoio, non ci si appassiona più a leggere i suoi ritratti memorabili, e forse, eccezion fatta per qualche tenace appassionato, nelle case, nelle librerie dei nostri vicini, della Storia d'Italia non ve ne è neanche l'ombra. La generazione dei ventenni di oggi, quella che non si schiera più a destra nè a sinistra, nè per gioco, nè per moda, nè tantomeno per convinzione, quella che ha negli occhi la tristezza e l'indifferenza, quella che viene lasciata in balìa del nulla che le viene offerto, beh, questa generazione, forse, Montanelli non sa neanche chi è. Ma come incolpare dei giovani disillusi, malinconici e alla ricerca, senza saperlo, di maestri cui rivolgersi? Se all'Italia di oggi "sembra non servire più" Indro Montanelli, la colpa non è certo di chi oggi ignora la sua memoria, no. La colpa è di chi non ha saputo divulgarne l'esempio, delle scuole, dei licei, delle università che non hanno saputo - nè voluto - prendersi la responsabilità di aprire ai ragazzi il mondo di un giornalista che non è stato solo un giornalista. Perché ancor prima di Montanelli c'era Indro: "fragile, spaventato, insicuro a quaranta come a vent'anni", il giovane che prese parte alla guerra d'Etiopia, il fascista convinto dei vent'anni, certo, ma anche il giovane che fece carriera, che con grande ambizione e caparbia riuscì ad esaudire il suo sogno, sbarcare al Corriere della Sera, l'Indro che arrischiava, osava, si intestardiva e alla fine otteneva. Questo è ciò che manca ai giovani di oggi. Una figura da cui prendere esempio, la cui memoria e il cui insegnamento li sproni non solo a costruirsi un futuro, ma che li aiuti a capire se stessi e che li faccia sentire di nuovo vivi. Ecco perché Montanelli è NECESSARIO. L'Indro che "voleva essere 'la stecca nel coro'" e che riuscì ad esserlo, usando l'intelligenza, la tenacia e l'autoironia.
Ricordo proprio, in merito a quanto detto precedentemente, che una professoressa di storia e filosofia, ai tempi del liceo, troncò la mia curiosità circa l'operato di Montanelli liquidandomi con un semplice e diretto:"Montanelli era un giornalista di destra. Bravo, si, ma fascista". Questo la dice lunga sull'infinita serie di pregiudizi che investono la sua figura di uomo e giornalista.
Ancora, mi sovviene il ricordo di quando, al festival del giornalismo del 2007 (se non erro), fu allestita in ricordo del "toscanaccio" una sala con le sue fotografie e le riproduzioni delle interviste che gli fecero negli anni '90. È stato commovente sentire la sua voce severa e ammaliante, osservare quello sguardo sempre vivo e lampeggiante. Ma la sala, ahimè, era semi vuota.
Ebbene, a questo punto, mi pare doveroso dire che, chi ha avuto l'audacia, e anche forse la giocosa sfacciataggine, di firmarsi Karl Marx e di spedire una lettera dal Paradiso a Indro Montanelli, non può e non deve arrendersi, ma ingaggiare (o forse è più giusto dire proseguire) una battaglia contro la dimenticanza (L'oblio, in definitiva, che faceva paura anche a Indro), promuovendo e rimarginando il ricordo di un uomo fermo e volitivo, fragile e spaventato, severo ed autoironico, il ricordo di un giornalista. IL Giornalista.

domenica 13 luglio 2014

Il tempo anestetico di Chiara Gamberale - Per dieci minuti

Chiara Gamberale
Per dieci minuti
Feltrinelli, 2013
187 pp.

Non bastano certo dieci minuti per leggerlo, ma è assicurato che dopo i primi dieci minuti vorrete triplicarli. I minuti. Da dedicare a questo libro.
Non bastano certo dieci minuti per leggerlo, ma è assicurato che alla fine della lettura, e a questo punto non importa più quanto tempo ci avrete messo, troverete la voglia di impiegare dieci minuti della vostra vita, tutti i giorni, per un mese, facendo quel che non vi sareste mai immaginati di fare. E non occorre che siano il vostro analista o il vostro psicologo a suggerirvelo. Basta avere davanti a voi la linea della vita, intrisa di perché senza risposta, di domande retoriche e inutili, di esperienze non accumulate, di viaggi interrotti, di Ti amo mai detti, di strade mai intraprese. A quel punto vi renderete conto che per assaporare desideri e realtà nel modo più intenso e caparbio possibile, non occorre un'organizzazione sistematica della vostra vita. Vi renderete conto, anzi, che basta quella scintillante manciata di minuti per dare una svolta alla vostra esistenza. Per dare il via a quello che più di tutti ci fa paura, da sempre: il cambiamento.
Questo è ciò che fa Chiara Gamberale nel suo libro "Per dieci minuti": gioca. Gioca mentre vive. O vive mentre gioca, forse. Sta di fatto che accetta di portare a termine il Gioco dei dieci minuti, consigliatole dall'analista. Perché "il gioco è una cosa seria".
Con grande freschezza e originalità, con l'amarezza e la rabbia di chi crede di avercela messa tutta, - e invece manca sempre qualcosa - con l'allegria e l'ironia di chi ha capito che vivere non è guardare il mondo attraverso lo specchio deformante dell'assuefazione amorosa, con la consapevolezza di non avere quella consapevolezza che una Donna dovrebbe possedere a trentacinque anni più che suonati, e, proprio grazie a ciò, attuando un inconscio atto di coraggio che le permette di uscire da Egoland - che poi diverrà magicamente (neanche troppo magicamente) egoland - per recarsi nella pescheria in fondo alla via ed ordinare un misto mare ed un'orata, - in previsione di una Vigilia di Natale sui generis-  alla fine, Chiara, sguscia dalla condizione "sottovuoto". E si immerge nella fase: Primo scaffale in alto a destra.
Il resoconto del diario che Chiara tiene per un anno diventa, in realtà, il diario di tutti coloro che lo leggono. In ogni pagina, dietro ogni azione, anche e soprattutto dietro l'impresa più anomala, assurda, improbabile, c'è ognuno di noi. È come se tra le righe del testo spuntassero tanti piccoli e puntuali ritratti del genere umano, e questo grazie alla non comune abilità della giovane scrittrice di palesare, con naturalezza e vivacità, i lati oscuri e i pensieri più inquietanti che albergano in lei, in noi. L'angoscia, la malinconica amarezza, il vuoto assordante che ci pervadono quando la persona che amiamo ci abbandona, dopo 18 anni di matrimonio, per via telefonica, dall'altro capo dell'Europa; lo stordimento e la rabbia che proviamo quando, di punto in bianco, il nostro lavoro viene affidato a qualcun altro - di cui non abbiamo la benché minima stima -; lo sconforto che ci assale quando siamo costretti ad abbandonare il luogo dell'infanzia e del cuore, quello in cui siamo cresciuti e in cui abbiamo maturato la certezza che alla fine tutto andrà sempre per il verso giusto, che ci saranno sempre questioni che mamma e papà risolveranno per noi, che non importa quale cosa terribile sia accaduta nell'arco della giornata, tanto alla fine si rientra sempre a Casa, rifugio per anime fragili.
Tutto questo, di colpo, può venire meno. Svanire. Evaporare. E si piomba nella realtà, quella triste, quella che hai sempre evitato, quella che non hai mai creduto potesse essere, in fin dei conti, così reale, perché la tua vita era fatta della stessa bellezza di cui sono fatti i sogni.
Capita anche questo, nella vita di Chiara come nelle migliori vite. A quel punto, allora, si inizia a giocare, ed è proprio in quei dieci lunghissimi o brevissimi minuti che, ogni dì per 30 dì, avviene la favolosa trasformazione che porta alla palingenesi. Fare tutto ciò che mai, e dico mai, avreste pensato di fare prima: che sia camminare all'indietro, fare dei pancakes, imparare a guidare, poco importa. Condizione necessaria e sufficiente è buttarsi. Soprattutto in cose che credete siano le più lontane da voi, le meno quotate, quelle che fino ad oggi avete considerato stupide, improponibili o, perché no?, volgari. Rischiare, in poco tempo, di ottenere quel che avete perso di vista: voi stessi.
Se alla fine del mese avrete capito che non serve costruire un perno attorno a cui ruoterebbe ipoteticamente la vostra esistenza, ma è la Vita stessa ad essere perno e ruota insieme, allora sì, l'esperimento sarà davvero riuscito. Buona fortuna.
"Non ho più un amore. Non ho più una cosa che sento davvero mia, non ho più un lavoro che mi piaceva. Non un perno: ecco. Ma la vita che gira attorno a questo perno che non c'è, forse, non è poi così male."

I viaggi a sè stanti - Ogni viaggio è un romanzo. Paolo Di Paolo e le interviste

Paolo Di Paolo
Ogni viaggio è un romanzo
Laterza, 2007
199 pp.

E' da qualche tempo ormai che navigando in Internet, vagabondando su Facebook, e perché no? anche su Twitter, mi imbatto di continuo in brevi e a dir la verità poco significativi "resoconti" di viaggio, di quelli che si fanno d'estate, appena prese le ferie, o di quelli che gli studenti universitari si prendono la briga di organizzare una volta terminati gli esami. Resoconti un poco scarni, in cui alle migliaia di foto scattate - e rigorosamente condivise - (perlopiù concernenti piatti degustati e bevande sorseggiate ai piedi della Tour Eiffel o di quel che rimane del prezioso ed emozionante Muro di Berlino) vengono abbinate delle striminzite didascalie, non esaustive e talvolta persino aberranti.
Giungo alla soglia del venticinquesimo anno d'età avendo affrontato un solo Viaggio in vita mia (viaggio serio, s'intende) eppure mi sembra di avere già esplorato i luoghi più misteriosi e inconsueti. Perché? Come mai pur non avendo "conosciuto il mondo", pur non essendomi quasi mai spostata fisicamente, pur non avendo calpestato il suolo dei luoghi del Sapere, della Cultura, quei luoghi che ho studiato sui libri e dove sono nati i miei Miti, ho, nonostante ciò, come la netta sensazione di esserci già stata? Semplicemente ho effettuato viaggi a km zero. E a costo zero. Investendo unicamente in emozioni e sensazioni. E affidandomi, perché no, anche ai ricordi. Degli altri. Il tutto entro le quattro mura che formano il mio rifugio, la mia ancora di salvataggio: casa mia, in sostanza. Con l'andare del tempo e delle esperienze ho maturato la certezza che per rendermi conto della vastità dell'Esistenza e del Mondo, non occorre ogni volta preparare la valigia e prendere un treno, un aereo, una nave. No. Basta viaggiare con la mente. Ed è proprio quello che, attraverso le parole e i ricordi di grandi personaggi della letteratura contemporanea, Paolo di Paolo fa nel suo libro "Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi". Sì, è questo il punto di approdo: se stessi. Conoscere se stessi, coltivando la solitudine che alberga in noi, che riempie le nostre stanze e che al contempo ci permette di spostarci e visitare luoghi nuovi, sconosciuti. È palese: il giovane scrittore romano, ad esempio, dialogando con l'isolano Andrea Camilleri (perché ancora prima che scrittore e padre del commissario Montalbano, Camilleri è un isolano) disegna l'armonioso ritratto - non convenzionale - di un personaggio che, nonostante di viaggi ne abbia fatti parecchi, tuttavia non solo con gli anni è riuscito a non farsi "spaventare dalla vastità del mondo", ma ha capito anche, un po' come lo hanno capito Rossana Campo e Giuseppe Culicchia, che "crescendo e invecchiando si capisce quanto sia fondamentale il viaggio attorno alla propria stanza. E' all'interno di questo perimetro che diventiamo ciò che siamo. E' da qui che possiamo capire davvero qualcosa di noi stessi e degli altri". Poche parole sono bastate a dare l'idea di quanto complicato sia riuscire ad arrivare al punto di non ritorno, conoscere se stessi entro i limiti fisici della propria abitazione, che costituisce anche il punto di partenza, poiché è in questo modo, sfogliando pagine di libri vissuti o appena acquistati, confondendosi e smarrendosi tra le righe di un romanzo e le sue descrizioni, annegando nel profumo della carta stampata, che si arriva ad avere contezza di quanto grande e affascinante siano il Mondo e la Specie umana.
Paolo di Paolo, attraverso le interviste fatte, tra gli altri, a Melania Mazzucco, Dacia Maraini, Chiara Gamberale, Antonio Tabucchi, è riuscito a trasmettere al lettore un messaggio fondamentale e mai scontato: quale cosa straordinaria possano essere i libri, che fanno vedere posti in cui agli uomini succedono cose meravigliose. Ed è così che "la testa parte", inizia un viaggio, un percorso, che il più delle volte si scopre essere un percorso esistenziale. Gli occhi abbracciano "prospettive fino a quel momento inedite", fotografano immagini che nessuna reflex al mondo sarà mai capace di catturare. E' così, che poi, come sostiene Camilleri, iniziano le domande. Che altro non sono che il motore dell'Universo.

Mandami tanta vita: Paolo Di Paolo e il Gobetti del 2014

Paolo Di Paolo
Mandami tanta vita
Feltrinelli, 2013
158 pp.

Quando finisce il tempo in cui è legittimo sprecare tempo? Quand'è che la giovinezza evapora e si schiude l'età matura? E come si arriva alla soglia della gioventù avendo speso tutto ciò che era possibile investire? A queste complesse domande Paolo Di Paolo tenta di dare una risposta nel libro, finalista al premio Strega, "Mandami tanta vita". 
Annodata tra gli sviluppi delle vicende di Moraldo e Piero emerge la riflessione chiave che, tutto sommato, accompagna il libro nel suo evolversi: come si spende la giovinezza? Quando si smette di essere giovani, e come ce se ne accorge? Si tratta di un momento assolutamente indefinibile, non privo certo di qualche segnale riconoscibile, ma tuttavia emotivamente impegnativo ed oscuro. Questa volta Di Paolo mette in gioco due pedine teoricamente vicine e praticamente agli antipodi: Moraldo, giovane inesperto della vita, alle prese con la sessione d'esami e che, una volta arrivato a Torino per questi ultimi, si accorge di aver scambiato la propria valigia con quella di uno sconosciuto, e Piero, il coetaneo ventiquattrenne - ammirato e detestato da Moraldo - che ha già fondato riviste, una casa editrice, combatte contro la deriva autoritaria del Paese ed è sposato con Ada, dalla quale ha avuto da poco il suo primogenito. Se Moraldo è un personaggio frutto della fantasia dell'autore, Piero è invece il Piero Gobetti che visse tra il 1901 e il 1926, il giornalista e antifascista italiano che morì troppo presto per vedere i suoi tanti e grandi progetti intellettuali spiccare il volo.
La scelta del personaggio di Piero ha un significato ben preciso ai fini dello sviluppo di questo romanzo appassionato e commosso sul "rischio di essere giovani". Ciò che più colpisce è la fatica, e forse anche lo strazio, se di strazio si può parlare, di mettere insieme un progetto intellettuale, come quello che aveva Gobetti, e i sentimenti: se Di Paolo è stato spinto ad iniziare questo viaggio letterario accompagnato da Piero, è proprio perché ha letto alcune lettere d'amore di Gobetti alla moglie. Ciò che affascina e che inquieta al tempo stesso è indagare lo spazio in cui i sentimenti entrano, quegli stessi sentimenti che Gobetti voleva governare, voleva domare e tenere sotto controllo, perché impediscono inevitabilmente la realizzazione dei progetti, soprattutto se si ha un tempo prestabilito. Se, come emerge anche dal libro su Montanelli - "Tutte le speranze" - Di Paolo è sempre interessato ad andare alla ricerca dell'Uomo più che del giornalista o del politico, scovando le missive più lontane dal personaggio pubblico e concentrandosi su quelle che invece riguardano la sfera dell'intimità, la sfera in cui i sentimenti vengono stanati e gli Uomini, anche quelli più grandi, tornano ad essere semplicemente esseri umani, con Gobetti accade la stessa cosa: lo scrittore romano vuole cercare di vedere in che modo Piero domina il regno degli affetti, e ciò è possibile grazie alle lettere che si scambiano lui e la moglie Ada.
Ma Piero è anche il Gobetti che tenta, per usare un'espressione del professor Nigro, di "maturare un altro mondo", proprio come tentano di fare quasi tutti i giovani, senza però poi avere l'opportunità di verificarne gli esiti, suo malgrado. Di fatti Piero era ignaro del fatto che sarebbe morto così prematuramente e dunque, all'interno del suo percorso, stava maturando questo "altro mondo" all'interno del mondo ingrato in cui era costretto a vivere. Piero si accorge con puntuale perspicacia che il rischio della sua epoca sarebbe stato tradire la politica, nonostante lui stesso, come ci ricorda Di Paolo, fu colui che all'acerba età di diciassette anni spese delle forti critiche contro la classe giolittiana, definita come corrotta e incapace, ma che, anni dopo per l'appunto, si corresse sostenendo che bisognava "Restare politici nel tramonto della politica".
Dall'altra parte rimane invece un insoluto Moraldo, annaspante e indeciso, il giovane coetaneo di Piero che, a differenza sua, non riesce a prendere una posizione. Facendo attenzione però a non definire Moraldo come inetto. Moraldo si schiera piuttosto nel girone degli incerti, dei confusi, appartiene, per utilizzare le parole dell'autore, "ad una zona grigia della storia più che dell'esistenza", proprio perché ancora non ha trovato il suo sbocco, la sua destinazione. Moraldo, così come Piero, è arrivato al limite estremo della propria giovinezza, vede anche lui svanire il tempo delle occasioni, quello in cui aleggia sempre l'opportunità di poter sprecare tutto, tempo, spazio, pensieri e idee. Moraldo però, a differenza di Piero, sembra non essersi "sprecato troppo", sembra proprio non aver fatto nulla, osservando inerme la vita che gli scorreva accanto e attraverso. Per Moraldo è finito un tempo e, vacillando sulla soglia dell'età matura, il campo delle possibilità si restringe necessariamente ed inevitabilmente. Ed è proprio sul limite di questa linea d'ombra che, allora, decide: decide di sprecare qualcosa, l'energia, ad esempio. Nelle ultime pagine, che coincidono con l'apprendimento da parte di Moraldo della morte di Piero, è come se nel giovane incerto si accendesse un'illuminazione, come il fuoco di un bengala, che, però, appena lo afferri vedi il fuoco spegnersi. Il fuoco si spegne proprio alla fine del libro.

Al di là di qualsiasi retorica, al di là di qualsiasi formalismo, cui Di Paolo si è dimostrato e continua a dimostrarsi estraneo, ci viene offerto un Gobetti inedito, un Gobetti amico, fragile e umano, un ragazzo di soli ventiquattro anni che, sebbene ad un primo sguardo possa risultare antipatico con quel suo fare spocchioso e snob, in realtà, come tutte le anime sensibili, cede a tratti al crollo emotivo. Anche lui dubita, è incerto, a volte ha persino l'impressione che quello che sta facendo non potrà mai avere degli esiti misurabili sul tempo della vita - salvo poi correggere il tiro per annegare nella certezza che non potremo mai misurare tutte le nostre battaglie sulla linea del tempo della nostra vita - .
Ciò che, alla fine di tutto, accomuna Moraldo a Piero, oltre all'età, è il desiderio di entrare in contatto con chi ha più esperienza di loro. Moraldo tenta di farlo con Piero stesso, invano - per questo Gobetti si troverà ad essere personaggio ammirato ma al contempo detestato dal giovane confuso - , e Piero tenta di farlo con Einaudi, Salvemini, Croce, poiché avverte il bisogno di confrontarsi, di specchiare se stesso in "come un destino si compie". Cosa c'è di misterioso e magico ed inspiegabile dentro il fatto che si diventa ciò che si è? Gobetti, nel tentativo di risolvere questo favoloso enigma, avverte una rispettosa ribellione verso chi è più anziano di lui, lo attacca per cercare di capire questo mistero, questo segreto. E se ne lascia avvolgere. Inevitabilmente.
Piero e Moraldo, è chiaro, sono personaggi che si muovono all'interno di un romanzo che ha come sfondo la Torino degli anni '20, ma in realtà si tratta di persone dal pathos fortemente contemporaneo.
Se Piero è singolare perché investe tutte le sue energie in modo caparbio e tenace per realizzare, se pur con tutti i dubbi leciti e non, progetti e idee, e forse per questo, al giorno d'oggi, potremmo riscontrare un che di positivamente anomalo in lui, Moraldo invece è un "eroe" dei nostri tempi, che spende la propria giovinezza nel modo più lontano da quello di Gobetti, che sembra risvegliarsi solo sul limitare della gioventù, e che tenta di approcciare con quello che per lui è un Modello di riferimento: Piero. L'esempio di un giovane intellettuale e giornalista che a ventiquattro anni è già in grande attività affascina Moraldo, chiuso nel limbo della paura e della rabbia, ma al contempo lo indispettisce, a causa dei suoi ripetuti tentativi di scrivere a Gobetti, il quale, chiaramente non di proposito, non può rispondere.
Se Moraldo annaspa tentando di inseguire il suo punto di riferimento intellettuale, al giorno d'oggi, forse, è venuta anche meno la voglia e la speranza di tentare un confronto con i nostri miti, quelli che, come dice Montanelli, "è sempre meglio guardare da lontano" perché se visti da vicino si notano "tutte le rughe".
La speranza è che questo audace romanzo, elaborato da un giovane per i giovani, possa fungere da stimolo per tutti coloro che, per vocazione, per indole o perché hanno realizzato tardi di aver raggiunto l'apice dell'epoca in cui tutto è permesso, cercano la forza di immergersi nella Vita, di attuare i progetti, anche quelli che da troppo tempo giacciono nel cassetto insieme ai sogni, di rischiare anche di farsi male, per rialzarsi più coraggiosi di prima.
A tutti, l'augurio di ricevere tanta vita.

Nina Berberova e i risvolti tragica della santa Pietroburgo - L'accompagnatrice

Nina Berberova
L'accompagnatrice
Feltrinelli, 2008
103 pp.

"Il fascino e l'invidia, la sottile crudeltà e l'ambivalenza, le sfumature e le ombre nel rapporto tra due donne di diversa condizione e fortuna. Il legame tra una povera pianista - L'accompagnatrice - e una. A tante di successo raccontato in un centinaio di pagine di rara finezza psicologica."

Per leggere la mia recensione vai su http://www.sololibri.net/L-accompagnatrice-Nina-Berberova.html


Il disordine e la noia di Marguerite Duras - La vita tranquilla

Marguerite Duras
La vita tranquilla
Feltrinelli, 1998
158 pp.

"Disordine, fastidio, caos. Tutto era cominciato una sera di vendemmia, quando Nicolas l'aveva messa incinta. E a poco a poco al disordine era seguito il disordine e tutti avevano lasciato correre". Eccolo il disordine delle anime, il disordine del sangue, quello che Marguerite Duras ingoia e fa suo, rigettandolo a colpi di parole, simili a maceti, sulle pagine de "La vita tranquilla". 
Per leggere tutta la recensione al libro vai su Sololibri.net - Recensioni di Giulia Ciarapica.

Persona e tecnica: la grande caduta degli dei

Persona e tecnica: la grande caduta degli dei

"In questa commovente fiducia di poter chiudere anche l'ultima falla all'irrompere della sorte, c'era, malgrado l'apparente austerità e modestia nel concepire la vita, una presunzione pericolosa. L'Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta ed infallibile verso "il migliore dei mondi possibili". Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. (...) Tale fede in un "progresso" ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell'eta la forza di una religione".
Se Stefan Zweig già nel 1942 aprì "Il mondo di ieri" con considerazioni così puntuali e precise su un secolo che tutto aveva dato, nulla si era riservato e che di ogni entusiasmo si era acceso, procedendo con un incedere sicuramente meno poetico e nettamente più spedito e - come negarlo - più frettoloso, Umberto Galimberti, figlio del proprio tempo, filosofo della seconda metà di quell'ingarbugliato secolo che ha ospitato due guerre mondiali, una guerra fredda e il crollo del muro di Berlino, giunge a delle considerazioni molto simili. Sicuramente non riguardo il XIX secolo, ma, nondimeno, le riflessioni sul progresso e su quello che Galimberti definisce il "mito della tecnica", si estendono a tutta la storia dell'uomo, fino a giungere al culmine di approdo: il presente che viviamo, il duemila.
Il pensiero che da Zweig vola a Galimberti, passa inevitabilmente attraverso l'oscura presenza di quell' "ospite inquietante" che è stato da Ivan Sergeevič Turgenev definito come tale: il nichilismo. Ma considerazioni così funeste e angoscianti non scaturiscono da pindarici voli mentali che l'intellettuale del primo banco si risolve a fare. Hanno origine, banalmente, dai telegiornali, dalle riviste, dai quotidiani, che, oggi come oggi, hanno più l'aspetto di bollettini di guerra che non di portatori sani di notizie.
Se già il recanatese Leopardi era pronto ad inveire contro quel progresso oleoso e strabordante che offuscava la vista, Galimberti è altrettanto pronto ad affrontare "il mostro tecnica" a partire dalle sue radici, quelle che abbiamo perso di vista e che non ci consentono, celate dietro al mito del progresso scientifico, di recuperare un'individualità sempre più a rischio, forse ormai completamente perduta. Il quotidiano costellato di omicidi, azioni folli, gesti moralmente ignominiosi, è in balìa del cosiddetto "nichilismo da progresso". Se, come dice il filosofo, la tecnica nasce come uno strumento a disposizione dell'uomo, oggi, al contrario, la tecnica è diventata il vero soggetto della storia, "rispetto al quale l'uomo è ridotto a funzionario dei suoi apparati". Come disse Heidegger, ciò che inquieta più di ogni altra cosa non è tanto il fatto che il mondo si stia trasformando in un completo e assoluto dominio della tecnica, quanto piuttosto il fatto che l'uomo, non essendo preparato a questo radicale mutamento, inevitabilmente perde di vista la propria persona, che, per usare l'espressione di Galimberti, viene "messa tra parentesi a favore della sua funzionalità". Il mancato controllo e la pessima gestione del processo evolutivo scientifico a cui stiamo assistendo non ci permettono di recuperare quell'umanismo che prevede la centralità dell'uomo, il quale, dunque, è abbandonato all'inerrestabile egemonia della tecnica.
Il problema della tecnica è oggetto di riflessione fin dai tempi dell'antica Grecia e attraversa il secolo XVII in cui ci troviamo di fronte ad un Bacone che, nel Novum Organum, scrive esplicitamente che "la scienza concorre alla redenzione dell'uomo", poiché è in grado di ridurre la fatica del lavoro e l'atrocità del dolore. Si arriva perciò a delineare in questo modo il senso moderno di tecno-scienza. Dunque, di fronte alla costante crescita di questo nuovo mito e dell'incapacità sempre più preoccupante dell'uomo di tenerlo a bada, giungiamo alle riflessioni di Hegel circa l'età della tecnica. Il filosofo tedesco sostiene che, in futuro, la ricchezza non sarà più formata dai "beni", ma dagli "strumenti" poiché i beni si consumano, mentre gli strumenti sono in grado di produrre altri beni; inoltre Hegel dichiara che, a seguito di un incremento quantitativo di un gesto - ecco dunque l'importanza dell'azione meccanica in sè - vi è anche, inevitabilmente, un cambiamento qualitativo.
A questo punto è doveroso precisare che, come dice Galimberti, poiché la tecnica si trasforma in ciò senza cui nessun fine è realizzabile, allora essa diventa, a prescindere, quel che tutti vogliono, in quanto senza la tecnica i fini non possono essere raggiunti.
Ed ecco quindi costituirsi propriamente quella che è chiamata l'età della tecnica, che si protrae e tocca il suo culmine nell'Otto e Novecento. Durante la Seconda guerra mondiale, in particolar modo, si assiste ad uno sviluppo tecnologico che "determina una mutazione antropologica senza precedenti. Il modo di pensare che si forma in quegli anni diventerà il paradigma dominante per tutti noi che viviamo nell'età della tecnica". Di ciò è convinto Galimberti che riprende le tesi di Günther Anders, filosofo tedesco rifugiatosi in America a causa delle persecuzioni naziste.
Per Anders ciò a cui di più tragico stiamo assistendo è il cosiddetto passaggio dall'agire al semplice fare: quando "agiamo" compiamo delle azioni in vista di uno scopo, mentre quando "facciamo" eseguiamo bene una serie di mansioni in modo meccanico, spesso e volentieri senza essere responsabili - o addirittura totalmente ignorando - il fine per cui ci stiamo muovendo. Questo è ciò di quanto più alienante e destrutturante possa esserci per la persona, quella parte fondamentale della nostra essenza che stiamo perdendo di vista giorno dopo giorno. In questo modo, accumulando mansioni su mansioni, gesti meccanici su gesti meccanici, ci limitiamo a perpetuare, nell'arco di un giorno, di un anno, di una intera vita, un'azione la cui meta è apparentemente priva di senso. Riduciamo, così facendo, il nostro sistema di pensiero a quello di una macchina, in grado di dire semplicemente: si/no, giusto/sbagliato, buono/cattivo, abbandonando quella vasta area di complessità mentale che l'uomo aveva conquistato dopo aver superato lo stadio di primitività.
Paradigma più immediato a queste considerazioni strettamente filosofiche è la realtà, che quotidianamente emerge dalla tv. Se i talk show del venerdì sera sono costantemente - da qualche anno a questa parte - dedicati all'imbarazzante quanto aberrante cronaca degli omicidi a cui assistiamo ogni giorno - nel tentativo di dare anche una spiegazione logica a certe azioni che di logico hanno ben poco- allora, a questo punto, tanto vale scavare a fondo e non fermarsi alla superficie delle cose. Qual è il problema? Da dove parte il Male di vivere che ci attanaglia? Chi ne è la causa? Perché non siamo più in grado di gestire l'uomo alle prese col mondo che lo ospita? Perché sembriamo non avere più gli strumenti adatti a far fronte alle nuove tecnologie che incombono, che ci opprimono, che ci fanno da padre e da madre, che ci seguono nel quotidiano e oltre il quotidiano, che ci mettono a dormire e ci danno da mangiare anche quando non abbiamo fame?
Figli ormai di un convitato di pietra quale è la tecnica, siamo diventati i fratelli minori del nichilismo da progresso, i quali, insieme, giocano a relegare sullo sfondo tutte le immagini che l'uomo si era fatto di sè per orientarsi nel mondo. A proposito di nichilismo e tornando alla sfera letteraria da cui si è partiti, è stato proprio Turgenev, col suo Padri e figli (1862), capolavoro della letteratura mondiale, ad aprire la strada a queste affannose considerazioni circa il futuro, lo scontro generazionale tra i vecchi padri conservatori e i nuovissimi e scintillanti figli progressisti e il finto nichilismo dell'uomo moderno - a cui anche Baudelaire sembra portare rispetto.
I protagonisti di Turgenev in realtà non sono dei veri nichilisti DOC, bensì appaiono come tali perché negano, a differenza dei loro padri, i valori tradizionali, l'ordine, l'autorità, i costumi patriarcali. Ma essi, come specificato da Claudio Magris in un articolo apparso sul Corriere della Sera nel gennaio del 2001 - e ora presente nella raccolta Alfabeti -, "come tutti i progressisti e rivoluzionari, sono invece uomini di profonda fede, ben più dei loro perplessi genitori: credono appassionatamente nel progresso, nella scienza, nella giustizia, nelle riforme, nei lumi della ragione che sfatano i secolari pregiudizi o credenze che essi comunque ritengono false anticaglie". Fortemente fedele al mito del progresso, tuttavia, alla fine del libro, quando l'amore si affaccia sulla soglia della vita del protagonista Bazarov, questi, come un altro grande protagonista dell'omonimo capolavoro russo, Oblomov, non riesce a coglierlo. Smarrito tra i propositi progressisti, accecato dalla prepotente luce della ragione e della scienza, si lascia scappare l'unica occasione di "redenzione vera" che avrebbe dato una svolta alla sua vita. L'amore, così come per Oblomov, giunge in ritardo, quando i due, se pure innamorati, non ne sono più all'altezza, poiché hanno perso di vista l'obiettivo "persona".
Se la Storia è maestra e giudice dei nostri errori, la letteratura può esserlo nella misura in cui da un testo, da una poesia o da un frammento siamo in grado di trarre i giusti insegnamenti. E forse dovremo fare come il buon vecchio poeta dello spleen, il Baudelaire che si affacciò, con garbo ed eleganza, sulla finestra della modernità. Il poeta maledetto seppe sfruttare quella malinconica nostalgia del passato rintracciando tra le strade cementate e i palazzi in costruzione, quel profumo di umanità che nessuno era forse più in grado di percepire, quell'olezzo positivamente angosciante tipico del genio incompreso, dello scrittore ansiogeno, del poeta d'altri tempi.
Fu in grado, insomma, di rintracciare la persona oltre la gente.
È finita davvero?