“Io sono semplicemente un imbranato, ecco. Un imbranato che pensa”.
Avete mai
incontrato nella vostra vita un imbranato che pensa? E avete mai immaginato a
come potrebbe comportarsi nella realtà di tutti i giorni? Certo che se si
tratta di un imbranato, sicuramente non ne farà una giusta, ma è pur vero che
se è uno che pensa forse collezionerà fallimenti ragionati, o quantomeno consapevoli.
Ebbene, l’imbranato
in questione è Pedro Felipe Colella, classe 1981, nato in Spagna – la Spagna
del Polve, quella intima e polverosa e affascinante che nulla ha a che vedere
con la movida delle grandi città – da genitori italiani e protagonista del
primo romanzo di Emanuele Tirelli, Pedro Felipe (Caracó, 2014).
Quello che
apparentemente potrebbe sembrare il classico Bildungsroman di un autore al suo
primo lavoro, in realtà è qualcosa di più. Pedro Felipe è un giovane dal sangue
spagnolo e dall’animo italiano che sarà costretto, insieme a tutta la sua
famiglia, ad abbandonare il Polve per Milano, all’incirca all’età di sette
anni. Il distacco dalla sua terra, dalle sue radici e dai suoi affetti non è
dei più semplici, eppure Milano, con l’andar del tempo, non si dimostrerà poi
così brutta come appare. Ma questa città – dai colori decisamente più grigi e
più cupi rispetto alle gioiose tonalità spagnole – è legata ad un’idea di fondo
sbagliata, o meglio, purtroppo non è l’idea ad essere sbagliata, a volte è
proprio la vita. Infatti la famiglia Colella deve trasferirsi a Milano perché la
nonna materna Alba è malata, il cancro la sta divorando lentamente. Milano è
cosparsa di quella malattia che colpirà presto tutta la famiglia, in senso
letterale e in senso metaforico: a mano a mano il cancro colpirà nonna Alba,
poi si porterà via zia Letizia e nel frattempo avrà modo di insinuarsi negli
animi di chi sopravvive, dei genitori di Pedro, dello zio Carlo, della cugina
Marta.
È sotto questa
invisibile cupola di malessere che, tuttavia, la vita procede, va avanti e lo fa,
più o meno, indisturbata: Pedro cresce, prosegue gli studi e si innamora di Claudia,
la figlia del Muchacho – il proprietario del bar dove Pedro passa molte ore in
compagnia di un’atmosfera che tanto gli ricorda la sua amata Spagna. Spagna in
cui Pedro Felipe può finalmente tornare, ora che è grande, che ha terminato l’università
e che vuole una famiglia tutta per sé, insieme alla sua bella compagna. Ma sarà
proprio il Polve, una volta che i due giovani vi avranno fatto ritorno, a
tradire il suo figlio più fedele, il figlio che ha deciso di lasciare una
famiglia ferita dalla morte per inseguire il suo sogno di indipendenza,
ripartendo proprio dalle radici, dalla memoria e dal passato. La famiglia
malavitosa di Don Jaime, infatti, trascinerà Pedro in un sottile e pericoloso
vortice di menzogne e silenzi, in cui le parole perderanno il loro significato
emotivo, per ridursi a meri ordini da eseguire nel miglior modo possibile.
Quello di
Emanuele Tirelli è un romanzo a tutto tondo, pronto ad abbracciare il lettore e
a coinvolgerlo nelle avventure di un anti eroe dei giorni nostri. Perché Pedro
Felipe non ha nulla di eroico, questo bisogna dirlo: non è il giovane spagnolo
che arriva in Italia e stravolge la sua vita alla ricerca del successo, né
tantomeno è il coraggioso uomo obbligato a combattere contro pregiudizi e
ipocrisie della modernità – che, a volte, di moderno ha ben poco. Pedro,
piuttosto, è un sopravvissuto agli eventi naturali della vita, è uno che esiste
e resiste, ma se ne accorge solo quando il puzzle che per tanto tempo ha avuto
davanti agli occhi inizia a sgretolarsi.
Se il collante
di Pedro Felipe è senza dubbio l’ironia, mista ad una sottile ma incisiva
carica emotiva che ben si sposa con l’analisi psicologica dei personaggi e di
ciò che ruota attorno ad essi, è bene precisare, però, che la base di tutto il
testo è sicuramente il mistero: il mistero dell’esistenza, il mistero di come
si riesca a rimanere in piedi quando qualcuno se ne va, di come si possa
continuare a respirare quando la morte ci schiaffeggia, il mistero di come si
sopravvive nonostante tutto.
In queste pagine
intrise di ricordi, di emozioni – manifeste o maldestramente celate – e di un
passato che continua a modellare il presente di chi lo abita, è la morte che
spinge il protagonista, alla fine, a ragionare sulla vita. La morte come
dispetto, come ostacolo che blocca e immobilizza:
“Le due morti si erano portate via tutto quanto. Sì, perché le morti non erano state semplicemente un’assenza atroce. Le morti avevano invitato a casa la malattia”.
Pedro Felipe,
nel suo percorso di crescita e di maturazione personale, approda soltanto alla
fine a questa riflessione, accorgendosi troppo tardi – forse – dei danni che la
perdita degli affetti più cari ha causato nell’intimità della sua famiglia. La
morte è stata compagna prepotente dell’esistenza di quel piccolo nucleo
familiare, ma a volte Pedro è distratto, Pedro guarda ma non vede, e non si
accorge che tutto il mondo attorno a lui aveva già avviato il suo processo di
distruzione, prima ancora che le sue orecchie avvertissero il rumore assordante
del pericoloso silenzio di cui si era circondato.
Ed ecco il
secondo punto chiave del romanzo: le parole. Le parole sono strumento
fondamentale per l’uomo, con le parole comunichiamo, dimostriamo qualcosa a chi
ci ascolta, prendiamo coscienza di quello che siamo. Pedro Felipe ha scelto,
invece, la via del silenzio, ha deciso di non rivelare a Claudia una parte importante
della sua nuova vita nel Polve, quella in cui si sono intrufolati i malavitosi
del clan di Don Jaime. È così che Pedro finisce per essere seppellito dalla sua
stessa scelta, quella del mutismo. C’è egoismo in questa volontà di chiudersi
in sé, c’è presunzione di credere che tutto andrà sempre per il verso giusto,
anche quando le cose un posto sembrano non avercelo proprio.
“Ecco cosa doveva essere successo. In tutti questi anni mi ero straziato. Mi ero storto nel silenzio di quanto invece avrei voluto dire e l’oppressione si stava facendo avanti dopo tutti quegli anni”.
Emanuele Tirelli
si rivela autore dell’individuo, scava, ma con garbo ed eleganza, fino a
toccare il fondo dell’animo umano: i suoi personaggi contengono vita e morte
nello stesso frammento di esistenza, sono defunti che rinascono sotto le nuvole
di Milano o sotto il sole del Polve. Il tratto dolcemente teatrale che Tirelli
ha conferito al testo è qualcosa di essenziale, che scaturisce dalla sua natura
di drammaturgo e che non poteva non sposarsi alla perfezione con il
sentimentalismo di Pedro Felipe. Eppure proprio questo sentimentalismo – venato
di una agrodolce testardaggine che conferisce umanità al personaggio – non è
mai stucchevole, anzi, sembra strattonare il lettore, quasi a volerlo
ricondurre all’autenticità della vita, fatta di piccole cose e grandi
entusiasmi.
Descrivendoci, da
una parte, una Spagna che con i suoi colori e i suoi sorrisi accoglie sì, ma è
anche pronta a tradire, e, dall’altra, una Milano cupa e tormentata, in cui i
sogni sembrano volatilizzarsi, mentre lasciano il posto alla dura realtà,
Tirelli ci conduce in un viaggio intimo fra due terre a modo loro
corrispondenti: con uno stile delicato e ironico, fluttuante ma incisivo, Pedro
Felipe diventa il romanzo rivelazione, poiché tratteggia il nuovo volto del
classico romanzo di formazione.
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