“Lo ammazzava l’impaurimento che la Trinità perseguitante, lo Scuru, la Statua e u Diavulu, s’abbattesse oltre che su se stesso altresì contro la fimmina. Ché avrebbero avvelenato anche i sogni di lei per poi impossessarsi insino del corpo fino a stutarla”.
È Razziddu ad
avere paura, il giovane Razziddu Buscemi che, mentre narra gli infausti
accadimenti della sua vita compromessa, si ritrova ad invecchiare – ad un passo
dalla morte - lontano dalla amata Sicilia, a Milton, nel West Virginia, dove è
emigrato da molti anni ormai.
Questo è il
protagonista del primo potente romanzo di Orazio Labbate, che con Lo Scuru (Tunué) si cimenta in un racconto impregnato di inquietante visionarietà.
Razziddu è
orfano di padre, cresciuto all’ombra del ricordo funesto della misteriosa morte
di Carmelo Buscemi: il ragazzo lo invoca, affranto dalla disperazione, gridando al mare
la sua rabbia, in modo accorato, supplice, perché è stato proprio il mare ad
averlo portato via.
La vita del
giovane si snoda a Butera, piccolo paese siciliano affacciato sul Mediterraneo,
all’interno del quale si schiantano i rintocchi funebri della morte e del
dolore, rintocchi che scandiscono proprio l’esistenza di Razziddu. Questo
giovane visionario è ossessionato dalla religione, dalla morte, dall’inafferrabilità
della disperazione, e cresce in seno agli esorcismi che mamma Angelina e nonna
Concetta A Burduna praticano su di lui.
“Lesto Razziddu, dammi il vasetto col tuo seme e insino la lingua d’angello”, mi ammonì, presa dallo scattìu sacro”.
È un corpo che
scalpita quello del giovane siciliano, un corpo che si incendia, si raffredda e
torna di nuovo ad ardere, senza requie; Razziddu è materia e soffio di vento, è
sfregio sanguigno e impalpabilità: un essere fatto di pensieri acuminati, di
visioni oscure che si accalcano nel petto e nella mente, fino ad intaccare l’animo.
Razziddu è vita e morte, ombra, oscurità e luce accecante, quiete, ma solo
quella che precede la tempesta.
Il ritmo dei
giorni del ragazzo è scandito da formule magiche, pozioni, riti e dall’incombente
presenza della morte, dello Scuru, che si adagia insino tra le vie di Butera,
sotto un cielo violaceo e greve. La Sicilia, terra tanto ostile quanto
accogliente nella sua rigogliosità, diventa anima viva di queste pagine: è un’isola
che racconta “fabule nivure”, terra mistica che diventa scenario di visioni che
non solo scavalcano la realtà, ma scavalcano anche la vita oltre la vita.
La Sicilia è
Razziddu, Razziddu è la Sicilia: due volti diversi della stessa maledizione.
Eppure il sibilo
della vita si risveglia in Razziddu nell’incontro con Rosa, “una femmina cogli
occhi neri di una vallata”. Rosa lava il buio con le sue lacrime, lo trasforma
in santità, mentre Razziddu continua ad essere “cumpari” del Diavolo: una
scheggia di luce al cospetto del buio, uno schiaffo della vita in faccia a lo
Scuru, l’amore sembra abbattere l’oscurità dell’addio perpetuo.
È un romanzo di
grande spessore quello di Orazio Labbate, che ruba la scena ai grandi classici
conservandone la potenza: c’è la calma bollente di Verga, la passionalità di
Capuana, la prosa ardita e barocca di conterranei come Bufalino e D’Arrigo. Un
giovane scrittore che è stato in grado di sospendere il tempo della realtà,
ingabbiandolo nella crudele afa siciliana, mentre ha dilatato via via lo spazio
circostante, intingendolo in quelle visioni ardenti e nel blu di un mare
spietato e indifferente.
Si avverte, tra
uno scalpiccio nostrano e l’altro, anche un antico richiamo greco, che parte da
una dolorosa palingenesi: Razziddu, durante la ricerca del corpo del padre in
mare aperto, sfidando le onde in compagnia del mago Nitto, sembra vestire i
panni di un giovane Odisseo, alla ricerca della sua Itaca, delle sue origini,
incurante dei pericoli che gli dei hanno messo al suo servizio. Da qui il
parto, la nascita del nuovo Razziddu Buscemi, che cerca la vita nella morte
certa e aspira ad una nuova vita, costantemente in bilico tra la luce e lo
Scuru.
Accompagnato dal
fuoco, elemento chiave di tutto il romanzo - poiché uccide e al contempo
purifica e redime - il protagonista riesce a chiudere il cerchio solo alla
fine, quando, assieme all’amato zio, dà fuoco alla chiesa del paese, espiandone
i peccati e liberandola dal giogo della menzogna, e quando, finalmente,
riuscirà ad affondare le dita nel mistero del Male, contenuto nel corpo
sbrindellato del mago Nitto. Nitto, il file rouge che lega Razziddu a Carmelo,
che lega la colpa del padre a quella del figlio, è, in realtà, il Tiresia
siciliano: si narra che Tiresia, il celebre indovino della mitologia greca,
fosse stato tramutato prima da uomo a donna, e poi di nuovo da donna a uomo,
esattamente come accade a Nitto. È sì, uomo e mago, ma è anche donna e maga
quando prende le sembianze della majara Minica:
“È iddo, Razzì. Il majaru è la majara appunto. Tuttu dui dello Scuru sono il taumaturgo tìntu”.
Con uno stile
spigoloso, puntellato di termini dialettali siciliani, giocati con maestrìa
grazie ad una scrittura rocciosa, che colpisce come una mannaia, ma senza
tradire la delicatezza dell’atmosfera rarefatta e la poeticità del barocco
siciliano, Orazio Labbate costruisce un romanzo mistico, condannato alla
bellezza dell'inafferrabilità, tanto cara all’essenza della vita quanto a quella della
morte.
Un capolavoro struggente e ammaliante, portavoce di una Sicilia che lascia il segno, ancora una volta.
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