sabato 19 settembre 2015

"Lo Scuru" di Orazio Labbate: la voce maestosa della Sicilia

“Lo ammazzava l’impaurimento che la Trinità perseguitante, lo Scuru, la Statua e u Diavulu, s’abbattesse oltre che su se stesso altresì contro la fimmina. Ché avrebbero avvelenato anche i sogni di lei per poi impossessarsi insino del corpo fino a stutarla”.
È Razziddu ad avere paura, il giovane Razziddu Buscemi che, mentre narra gli infausti accadimenti della sua vita compromessa, si ritrova ad invecchiare – ad un passo dalla morte - lontano dalla amata Sicilia, a Milton, nel West Virginia, dove è emigrato da molti anni ormai.
Questo è il protagonista del primo potente romanzo di Orazio Labbate, che con Lo Scuru (Tunué) si cimenta in un racconto impregnato di inquietante visionarietà.



Razziddu è orfano di padre, cresciuto all’ombra del ricordo funesto della misteriosa morte di Carmelo Buscemi: il ragazzo lo invoca, affranto dalla disperazione, gridando al mare la sua rabbia, in modo accorato, supplice, perché è stato proprio il mare ad averlo portato via.
La vita del giovane si snoda a Butera, piccolo paese siciliano affacciato sul Mediterraneo, all’interno del quale si schiantano i rintocchi funebri della morte e del dolore, rintocchi che scandiscono proprio l’esistenza di Razziddu. Questo giovane visionario è ossessionato dalla religione, dalla morte, dall’inafferrabilità della disperazione, e cresce in seno agli esorcismi che mamma Angelina e nonna Concetta A Burduna praticano su di lui.
“Lesto Razziddu, dammi il vasetto col tuo seme e insino la lingua d’angello”, mi ammonì, presa dallo scattìu sacro”.
È un corpo che scalpita quello del giovane siciliano, un corpo che si incendia, si raffredda e torna di nuovo ad ardere, senza requie; Razziddu è materia e soffio di vento, è sfregio sanguigno e impalpabilità: un essere fatto di pensieri acuminati, di visioni oscure che si accalcano nel petto e nella mente, fino ad intaccare l’animo. Razziddu è vita e morte, ombra, oscurità e luce accecante, quiete, ma solo quella che precede la tempesta.
Il ritmo dei giorni del ragazzo è scandito da formule magiche, pozioni, riti e dall’incombente presenza della morte, dello Scuru, che si adagia insino tra le vie di Butera, sotto un cielo violaceo e greve. La Sicilia, terra tanto ostile quanto accogliente nella sua rigogliosità, diventa anima viva di queste pagine: è un’isola che racconta “fabule nivure”, terra mistica che diventa scenario di visioni che non solo scavalcano la realtà, ma scavalcano anche la vita oltre la vita.
La Sicilia è Razziddu, Razziddu è la Sicilia: due volti diversi della stessa maledizione.
Eppure il sibilo della vita si risveglia in Razziddu nell’incontro con Rosa, “una femmina cogli occhi neri di una vallata”. Rosa lava il buio con le sue lacrime, lo trasforma in santità, mentre Razziddu continua ad essere “cumpari” del Diavolo: una scheggia di luce al cospetto del buio, uno schiaffo della vita in faccia a lo Scuru, l’amore sembra abbattere l’oscurità dell’addio perpetuo.
È un romanzo di grande spessore quello di Orazio Labbate, che ruba la scena ai grandi classici conservandone la potenza: c’è la calma bollente di Verga, la passionalità di Capuana, la prosa ardita e barocca di conterranei come Bufalino e D’Arrigo. Un giovane scrittore che è stato in grado di sospendere il tempo della realtà, ingabbiandolo nella crudele afa siciliana, mentre ha dilatato via via lo spazio circostante, intingendolo in quelle visioni ardenti e nel blu di un mare spietato e indifferente.
Si avverte, tra uno scalpiccio nostrano e l’altro, anche un antico richiamo greco, che parte da una dolorosa palingenesi: Razziddu, durante la ricerca del corpo del padre in mare aperto, sfidando le onde in compagnia del mago Nitto, sembra vestire i panni di un giovane Odisseo, alla ricerca della sua Itaca, delle sue origini, incurante dei pericoli che gli dei hanno messo al suo servizio. Da qui il parto, la nascita del nuovo Razziddu Buscemi, che cerca la vita nella morte certa e aspira ad una nuova vita, costantemente in bilico tra la luce e lo Scuru.
Accompagnato dal fuoco, elemento chiave di tutto il romanzo - poiché uccide e al contempo purifica e redime - il protagonista riesce a chiudere il cerchio solo alla fine, quando, assieme all’amato zio, dà fuoco alla chiesa del paese, espiandone i peccati e liberandola dal giogo della menzogna, e quando, finalmente, riuscirà ad affondare le dita nel mistero del Male, contenuto nel corpo sbrindellato del mago Nitto. Nitto, il file rouge che lega Razziddu a Carmelo, che lega la colpa del padre a quella del figlio, è, in realtà, il Tiresia siciliano: si narra che Tiresia, il celebre indovino della mitologia greca, fosse stato tramutato prima da uomo a donna, e poi di nuovo da donna a uomo, esattamente come accade a Nitto. È sì, uomo e mago, ma è anche donna e maga quando prende le sembianze della majara Minica:
“È iddo, Razzì. Il majaru è la majara appunto. Tuttu dui dello Scuru sono il taumaturgo tìntu”.
Con uno stile spigoloso, puntellato di termini dialettali siciliani, giocati con maestrìa grazie ad una scrittura rocciosa, che colpisce come una mannaia, ma senza tradire la delicatezza dell’atmosfera rarefatta e la poeticità del barocco siciliano, Orazio Labbate costruisce un romanzo mistico, condannato alla bellezza dell'inafferrabilità, tanto cara all’essenza della vita quanto a quella della morte.
Un capolavoro struggente e ammaliante, portavoce di una Sicilia che lascia il segno, ancora una volta.

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