giovedì 24 settembre 2015

"I ricordi non si lavano": il mostro della depressione raccontato da Aurora Frola

  “Dovrei impegnarmi a vivere, almeno quanto mi sono impegnata a distruggermi. Voglio smettere di essere quella persona. Vorrei ucciderla e rinascere diversa. Pulita. Intera”.


 Quando si è sporchi dentro, quando si sente di aver toccato il fondo e si arranca per individuare una luce in fondo al tunnel, si avverte la necessità di scomparire, di annullarsi per mettere a tacere il dolore. Sono attimi eterni di disperazione che non concedono tregua al corpo e alla mente: disperazione che si tramuta in tragedia quando la vita è appesa al filo della depressione.
È così che nasce la storia di Angelica, tra una lavanda gastrica e il letto della clinica psichiatrica dove sarà ricoverata, ridotta ormai all’ombra di se stessa, un corpo trasformato in un campo di battaglia, scenario di dolorosi ricordi che non vogliono andarsene via. Angelica è la sofferente protagonista de I ricordi non si lavano di Aurora Frola (Edizioni della Sera, 2012, terza ristampa 2014), pagine accorate, struggenti nella loro forza intrinseca.
La giovane Angelica ha un passato turbolento, fatto di abusi sessuali in famiglia, grandi quantità di antidepressivi, benzodiazepine, prostituzione, violenza e un doloroso rapporto con se stessa, che nasce in seno alle conflittualità tra madre e figlia. Parte tutto da lì, da quel senso di non accettazione che provoca voragini di dolore puro: guardarsi allo specchio e non vedersi, parlare e non sentirsi, percepirsi vuoti, succubi di un giudizio errato e tuttavia più importante di qualsiasi altro: quello materno. Il male va ricercato nelle proprie radici e le radici del male di Angelica hanno un volto, un nome e il suo stesso sangue:
“Ma che cosa succede nella mente di una bambina che mangia veleno tutti i giorni senza saperlo, costretta a ingoiarlo? Ti ammali dentro e basta”.
Angelica non è più la bella bambina dai lunghi capelli biondi che sua madre avrebbe voluto coccolare e vestire con pizzi e merletti fino ai diciotto anni, Angelica non è mai stata nulla di tutto ciò, semplicemente perché Angelica è sempre stata se stessa. Un unico pegno da pagare: la non accettazione. Si sa che chi è costretto ad immagazzinare solo rancore, delusione e disprezzo, non può far altro che disprezzarsi, odiarsi e detestare tutta la realtà circostante: la vita non è più un miracolo che dura lo spazio di un respiro, ma diventa gabbia bollente per un tempo infinito.
È così che si arriva all’autolesionismo, all’autodistruzione, imbottendosi, come ha fatto Angelica, di benzodiazepine, di alcol e vendendo il proprio corpo per poter acquistare i farmaci che diventano “cotone” per il suo cervello, concedendo una breve tregua al suo male di vivere.
Cosa fare per porre un freno a tutto questo? Cosa fare per non dovere più sentire il bisogno di gettarsi via? Di togliersi la vita? Angelica, come tutte le altre “bambole interrotte” affette da disturbi psichici e deviazioni mentali, viene ricoverata in una clinica psichiatrica, che per tre mesi diventerà la sua nuova casa.
Questa nuova famiglia, composta di anime fragili e di occhi spenti, sedati a colpi di psicofarmaci, acquisterà, nel giro di non molto, i tratti di un vero e proprio nucleo familiare per Angelica, nucleo familiare fatto della stessa sostanza di cui è fatta lei: dolore, sofferenza e una speranza recondita di riuscire ad aggrapparsi nuovamente alla vita.
Le benzodiazepine diminuiscono gradualmente, niente più droga, niente più alcol, niente più sesso con chiunque e a qualsiasi ora del giorno e della notte. Lucida e pura, mai più sporca di quella perversa moralità da quattro soldi. Eppure c’è qualcosa che fa ancora male, un passato che non vuole andarsene, perché “i ricordi non si lavano”, mai. La memoria scalfisce ancora una volta il presente di Angelica, lo intacca con la sua voce tonante: i tagli sulle braccia le ricordano quanto sia inadeguata a questo mondo, mentre il rosso vivo le ricorda quelle mura imbrattate del suo stesso sangue. Perché Angelica esprimeva così il malessere, insudiciando con il suo dolore le pareti bianche della casa: una sofferenza condivisa è una sofferenza urlata, e forse, per questo, apparentemente meno dolorosa.
La protagonista di questo romanzo duro come la vita e tenace come la morte, si rivela completamente incapace di gestire ogni tipo di relazione, che sia essa sentimentale, familiare, affettiva o amicale: ogni cosa grava sul suo corpo stanco, mentre Angelica è intenta a costruirsi un recinto di veleno da cui non potrà uscire, se non inizierà ad esistere in primis per sé. La libertà diventa un traguardo inarrivabile, perché deve passare attraverso l’accettazione e la comprensione del proprio Io, inesistenti in Angelica.
Ma sono sempre i ricordi ad intralciarle il passo, a farle lo sgambetto ogni volta che prova a sentirsi migliore, a sentirsi diversa, nuova; solo la distruzione di ciò che la circonda, degli oggetti, della memoria, di tutto ciò che osa parlarle di lei, del mostro che le abita dentro da troppo tempo, solo questo può donarle un momentaneo - e illusorio - stato di benessere. Distruggere significa poter rinascere, almeno per un breve lasso di tempo: sfogare la propria angoscia e attuare una palingenesi incompleta, perché mai realmente vissuta nel profondo.
I ricordi non si lavano è forse uno dei testi più accattivanti degli ultimi tempi, un romanzo che cresce insieme al lettore, guidandolo nei meandri dei peggiori incubi dell’uomo. Aurora Frola riesce a dare vita alla morte che ci attende dietro l’angolo, regalandole una nuova luce di speranza. Questa è la letteratura che indaga realmente le emozioni e che ha il coraggio di dare voce a quel “mostro” chiamato depressione: come fece il compianto Giorgio De Rienzo ne Il dolore di amare, così Aurora Frola con I ricordi non si lavano porta il pubblico dei lettori a guardare giù, in quel pozzo senza fine che risucchia pensieri, sentimenti, entusiasmi e speranze, trasformando il corpo in un involucro marcio, che tutto ingoia, tutto accetta, tutto assorbe, fino a scomparire, implodendo.
Un romanzo che lascia galoppare la realtà, spingendola fino al limite, con una scrittura audace e potente, incisiva e tuttavia mai volgare: le parole diventano armi con cui combattere contro il nemico che abita dentro di noi, perché a volte ciò che di cui abbiamo bisogno è salvarci da noi stessi.
“Il dolore è un mostro che ci accompagna. È qualcosa che cresce dentro di noi, si trasforma e ci annienta se non lo gestiamo. (…) Dobbiamo imparare ad accudirlo, stargli dietro, coccolarlo. È un cucciolo che sa mordere se non riceve attenzioni”.

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