domenica 5 ottobre 2014

Allegro andante in solitaria - racconto breve

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio.
È bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida.
Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.
Cerca qualche distrazione tra i vicoli della memoria, qualche ricordo che le dia da mangiare e la porti a fare una passeggiata, lontano dal suo presente infinitamente doloroso. Cede. Afferra il telefono, rilegge i messaggi, vecchi ormai di tre mesi. Guarda tra le chiamate: solo il numero di sua sorella. Ride a bassa voce, beffandosi del suo malessere.
Nel continuo sforzo di cucire un’altra vita si arrende di fronte a ciò che di più caro ancora possiede: se stessa. La sua mente e il suo cuore, per la prima volta d’accordo, stanno già percorrendo la strada del grande viale alberato. Sì, farà così.  Non può continuare a rammendare quel vestito. E’ vecchio, è stretto.
Cerca tra i suoi abiti più belli. Oggi va a trovarlo. Sa dove si trova.
Il cappello a tesa larga dell’anno scorso, il vestito blu cobalto che gli piace - lei vive del suo piacere -  le scarpe di vernice , la borsa nuova. Un trucco leggero, aranciato, ha paura che non la riconosca. Ride. Qualche goccia di Valentino, è pronta.
Accende tutte le luci della camera, apre il cassetto, riprende la biancheria pulita e la posiziona accuratamente sul letto, dove dorme lei. Apre l’armadio, prende la sua vestaglia e la posiziona accuratamente sul letto, dove dorme lui. Aggiusta la lampada, si guarda allo specchio. Sì, oggi è bella. 
Esce.
Un incedere sinuoso ed avvolgente accompagna un’infelice bellezza; mentre piange sorride ai passanti che la salutano. Non parla con nessuno, lei. Sorride semplicemente. Il passo si affretta rincorrendo la paura, che già avanza rapida: "Lo troverò?  Sarà capace di amarmi ancora?" Costruisce amache tra una parola e l’altra, cullandosi tra le braccia di un dio che non è più il suo, il dio dell’Olimpo che tutto può e nulla impone. Cerca ancora tra le rovine di una civiltà dispersa ma che odora di eterno, creando neologismi per sopprimere le semplici parole della vita, troppo cariche di significati oscuri e limpidi. 
“Dammi un’altra possibilità/ non aspettare che il vuoto ci riempia./ Dammi un’altra possibilità/ non attendere il rumore accecante del silenzio./ Dammi ancora una possibilità/ non respirare la mia vigliaccheria.” Continua a ripetere i versi di una poesia malata. Scrive, lei. Di notte, quando è sola, quando è lucida, quando si sente onnipotente. “Inebria la tua mente/ del profumo del vetro spezzato,/ immergi le tue braccia e le tue gambe/ in un lago di vetri/ di cristallo,/ senza colpo ferire./ Abbandonati alla verità del dolore,/ appendi le tue labbra umide/ e calde/ al marmoreo corpo/ di una statua palpitante.”
Si ferma. Le scarpe la feriscono. Fa per abbassarsi. No, non serve. Continua a camminare. È finalmente arrivata all’inizio del grande viale alberato.
Guarda tra gli alberi, tra i rami. Cerca la luce opaca delle nuvole che si adagia sulle foglie; anche lei attende. Ogni cosa la osserva, la scruta. Ogni cosa attende. Attende lei. Percorre il viale, lo percorre tutto, lo percorre lentamente. Avanza a mani aperte, a testa alta. L’aria respira il suo profumo.
Uno spiazzo alla fine del viale, due panchine di legno, un panorama spettacolare. Si avvicina alla ringhiera, si toglie il cappello e lo osserva. Lo appoggia delicatamente sulla panchina. Non vuole sciuparlo.
Ride fragorosamente. Un tonfo sordo. Va da lui. Sì, oggi è bella, oggi sì.


Giulia Ciarapica 


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