venerdì 14 novembre 2014

Lettera con finale aperto - di Giulia Ciarapica

Non era pronta al tocco ruvido di quelle mani grandi, non aveva previsto quell'avvolgente sensazione di amore pervaderle il corpo, il petto, fino a stringerle le tempie, fino a farle sentire il cervello fluttuante e la testa leggera.
Era come vedersi dal di fuori: lui continuava a premere i palmi contro il dorso delle mani di lei, abbandonate ad una morsa di feroce tenerezza. 
Era una donna ormai, lo stava diventando, plasmata tra le dita di quell'amore maturo, appena nato. Era lei, sì, era lei, che stava cedendo all'atmosfera tutt'intorno. Era lei, sì, era lei, che apparecchiava nella mente visioni di velluto rosso, scaltre come un battito d'ali, mentre seguiva la danza cuore, che, come un sismografo, disegnava i volti del desiderio sul suo stomaco.  
La parola era superflua, eppure necessaria.
Non c'è un ricordo nitido che riesca ad accompagnarla fuori da sé, che le indichi la porta da cui poter uscire e dimenticare tutto. No, non c'è. Forse perché non c'è nulla da dimenticare, è tutto un magma viscoso, che resta attaccato alle dita, anche quando diventa secco. Forse perché è tutto impresso nella mente. Delle parole non rimane che il suono, degli sguardi i colori, dei profumi non si ha memoria se non della loro consistenza. 
Eppure quelle mani, ancora loro. Sempre. Quelle dita spietate che ancora le attraversano la carne, lacerandola sotto i colpi di un Perché senza risposta. La fragilità racchiusa in una stretta che chiedeva aiuto.
Quelle mani urlavano. Ed io, sorda, odo ancora e solo il suono di passi lontani. 












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