lunedì 13 ottobre 2014

Il percorso letterario di Mauro Corona




Da "Aspro e dolce" a "Confessioni ultime", passando per l'ultimo romanzo finalista Premio Campiello 2014 "La voce degli uomini freddi", Mauro Corona continua a regalarci scorci di vita vissuta parlando della tragedia del Vajont, di Erto e della natura, madre benigna e matrigna al tempo stesso.
Per leggere il mio articolo a riguardo potete andare su:





sabato 11 ottobre 2014

Dolorosi condimenti - racconto breve

Raggomitolata con le spalle al muro, i lunghi capelli biondi ad accarezzarle la schiena, qualche goccia di sudore le scendeva lungo il seno, piccolo e bianco. Aveva abbassato le difese ed ora era lì, rapita dall'immagine che le proponeva la calda piazza di luglio, alle 15 di un prepotente pomeriggio che palpitava dietro il vetro della sua finestra. 
"Nun ce vojo annà! Nun ce vojo annà!"
"Daje Eugè! Viè qua bello de nonna, daje! Nun me fa 'mbestialì!"
"No! No! Nun ce vado là! Nun me piasce! Puzza de bbroccoli!"
Quanta invidia verso quella spensieratezza. Lei, che non riusciva a distrarsi dal suo disagio, che non riusciva a staccare l’attenzione dall'ingordigia di quel malessere che la divorava. 
"Eugenio, essù, fa' lo bbono, nonna deve annà in campagna! Co chi te lascio?!"
"Me lasci da solo! So' granne abbastanza pe' famme l'affari mia! Da zia Ervira puzza troppo!"
"Ah regazzì, 'nnamo 'mpo' sa!"
"Aho! T'ho detto de no!"
"Eugè sai che famo? Se adesso vai da zia Ervira stasera nonna te prepara la parmiggiana che te piasce tanto, eh?"
"Davero nonnì?"
"E che te dico le bbuscie io? Daje a nonna, fa' ‘r bravo.."
Quella specie di accattone pasoliniano si era accucciato tra il braccio rugoso della vecchia e la sua pancia dura, mentre continuava a far "sì" con la testa. 
A Laura sfuggì un sorriso di rabbia. La parmigiana. Lei che da mesi non mangiava altro che carote e pesche. Il pensiero della parmigiana la nauseava, ma quel trasporto affettivo della nonna verso il suo nipotino, di quello sì, che ne avrebbe fatto una scorpacciata.
"Laura? Posso? Dai vèstiti, hai il treno alle 16.43. Ma che fai lì impalata? Vai via dalla finestra e non stare così accovacciata, ti verranno le righe sulla pancia!"
Le righe sulla pancia? E cosa vuoi che me ne importi? Faccio la modella, mica ho il corpo di cera. Faccio la modella, ma non voglio assomigliare ad un manichino. Faccio la modella, ma vorrei vivere anche io, senza vestiti, senza bilancia, con più partecipazione.
Quel corpo magrissimo strabordava di amarezza: le dita, ormai ridotte ad esili fili di lana, sgattaiolavano velocemente da una stoffa all’altra, senza una meta precisa. Le gambe asciutte e muscolose elemosinavano requie. Quel grumo di dolore che era diventata la sua vita, dimagrita anch’essa di colpo, spogliata di tutti gli entusiasmi dei vent’anni, cercava un lieto fine, come nei romanzi che Laura leggeva di notte. Unico momento di solitudine che le facesse riacquistare un briciolo di serenità.
“Allora? Sei pronta?”
“Certo mammì, ecchime qua, nun me vedi?”
“Laura, ma come parli? Che ti è preso?”
“Niente mammì, sarà ‘sto luglio che nun me piasce affatto.”


Giulia Ciarapica 



lunedì 6 ottobre 2014

Mauro Corona - "La voce degli uomini freddi"

"Quella gente viveva come la neve: lieve e silenziosa, senza aggrapparsi alle cose terrene, ma scivolando via da esse come la neve dai mughi nel tempo del disgelo."

Tra tutti i romanzi di Mauro Corona questo, finalista Premio Campiello 2014, è forse il più sentito ed efficace, perché riepiloga la poeticità indiscussa di questo scrittore trentino, forse all'apparenza rude e folkloristico, ma di grande spessore letterario, e la storia di un paese distrutto dal Vajont, Erto.
Per leggere la mia recensione al libro potete andare su:



domenica 5 ottobre 2014

Allegro andante in solitaria - racconto breve

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio.
È bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida.
Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.
Cerca qualche distrazione tra i vicoli della memoria, qualche ricordo che le dia da mangiare e la porti a fare una passeggiata, lontano dal suo presente infinitamente doloroso. Cede. Afferra il telefono, rilegge i messaggi, vecchi ormai di tre mesi. Guarda tra le chiamate: solo il numero di sua sorella. Ride a bassa voce, beffandosi del suo malessere.
Nel continuo sforzo di cucire un’altra vita si arrende di fronte a ciò che di più caro ancora possiede: se stessa. La sua mente e il suo cuore, per la prima volta d’accordo, stanno già percorrendo la strada del grande viale alberato. Sì, farà così.  Non può continuare a rammendare quel vestito. E’ vecchio, è stretto.
Cerca tra i suoi abiti più belli. Oggi va a trovarlo. Sa dove si trova.
Il cappello a tesa larga dell’anno scorso, il vestito blu cobalto che gli piace - lei vive del suo piacere -  le scarpe di vernice , la borsa nuova. Un trucco leggero, aranciato, ha paura che non la riconosca. Ride. Qualche goccia di Valentino, è pronta.
Accende tutte le luci della camera, apre il cassetto, riprende la biancheria pulita e la posiziona accuratamente sul letto, dove dorme lei. Apre l’armadio, prende la sua vestaglia e la posiziona accuratamente sul letto, dove dorme lui. Aggiusta la lampada, si guarda allo specchio. Sì, oggi è bella. 
Esce.
Un incedere sinuoso ed avvolgente accompagna un’infelice bellezza; mentre piange sorride ai passanti che la salutano. Non parla con nessuno, lei. Sorride semplicemente. Il passo si affretta rincorrendo la paura, che già avanza rapida: "Lo troverò?  Sarà capace di amarmi ancora?" Costruisce amache tra una parola e l’altra, cullandosi tra le braccia di un dio che non è più il suo, il dio dell’Olimpo che tutto può e nulla impone. Cerca ancora tra le rovine di una civiltà dispersa ma che odora di eterno, creando neologismi per sopprimere le semplici parole della vita, troppo cariche di significati oscuri e limpidi. 
“Dammi un’altra possibilità/ non aspettare che il vuoto ci riempia./ Dammi un’altra possibilità/ non attendere il rumore accecante del silenzio./ Dammi ancora una possibilità/ non respirare la mia vigliaccheria.” Continua a ripetere i versi di una poesia malata. Scrive, lei. Di notte, quando è sola, quando è lucida, quando si sente onnipotente. “Inebria la tua mente/ del profumo del vetro spezzato,/ immergi le tue braccia e le tue gambe/ in un lago di vetri/ di cristallo,/ senza colpo ferire./ Abbandonati alla verità del dolore,/ appendi le tue labbra umide/ e calde/ al marmoreo corpo/ di una statua palpitante.”
Si ferma. Le scarpe la feriscono. Fa per abbassarsi. No, non serve. Continua a camminare. È finalmente arrivata all’inizio del grande viale alberato.
Guarda tra gli alberi, tra i rami. Cerca la luce opaca delle nuvole che si adagia sulle foglie; anche lei attende. Ogni cosa la osserva, la scruta. Ogni cosa attende. Attende lei. Percorre il viale, lo percorre tutto, lo percorre lentamente. Avanza a mani aperte, a testa alta. L’aria respira il suo profumo.
Uno spiazzo alla fine del viale, due panchine di legno, un panorama spettacolare. Si avvicina alla ringhiera, si toglie il cappello e lo osserva. Lo appoggia delicatamente sulla panchina. Non vuole sciuparlo.
Ride fragorosamente. Un tonfo sordo. Va da lui. Sì, oggi è bella, oggi sì.


Giulia Ciarapica 


L'ascensore - racconto breve

Matilde si sentiva una stupida. “Per non voler fare due piani di scale, prendo sempre l’ascensore. Ed eccomi qui dentro, da venti minuti, con questo sconosciuto che, oltretutto, continua a guardarmi in modo strano”. 
L’ascensore, vecchio e difettoso, aveva sempre dato problemi, minacciando più volte di rimanere bloccato, e proprio in quel giorno, dentro quella cabina stretta e satura di aria consumata, Matilde era rimasta intrappolata. Sulle prime pensò “Beh, poco male, almeno non sono sola”, ma quando constatò che i soccorsi tardavano ad arrivare e che quell’idiota accanto a lei non faceva altro che fissarla senza muovere un dito, si disse che quella giornata, iniziata male, si stava concludendo decisamente nel peggiore dei modi.
Almeno non aveva comprato nulla di urgente da mettere nel freezer.
“Fa caldo eh…”
“Già. Parecchio.”
“Io l’ho già vista da qualche parte, sa?”
“Ah davvero? E dove?”
“Lei non lavora mica ai grandi magazzini?”
“No. Io faccio la scrittrice”, rispose Matilde in tono risentito, senza neanche voltarsi a guardarlo.
Erano in piedi, l’uno accanto all’altra, tremendamente vicini e tremendamente lontani. Lui sembrava non voler distogliere in alcun modo l’attenzione da lei e Matilde se ne era accorta, eccome. Vagamente lusingata al pensiero che quello sconosciuto potesse riempirsi gli occhi della sua prorompente bellezza, dopo un po’ iniziò ad innervosirsi, impaziente, tra l’altro, di uscire sana e salva da quella spiacevole situazione.
“Mi perdoni, non volevo offenderla, non era mia intenzione, è solo che lei…”
“No, si figuri. Fare la commessa non è mica illegale”, questa volta alzò leggermente il timbro di voce e proruppe in una risata insensata, di quelle che si fanno quando ci si trova in estremo imbarazzo. Matilde si accorse subito di quella mossa falsa, che certamente lasciava scoperto il suo disagio, e per questo arrossì leggermente, serrando al contempo le labbra in una smorfia di disapprovazione. Lo sconosciuto sorrise appena e, abbassando lo sguardo, la incitò:” Dunque fa la scrittrice? Sa che anche io da piccolo scrivevo poesie?”
“Tutti i bambini scrivono poesie”
“Dice? In verità a scuola mi prendevano sempre in giro. Dicevano che era roba da femminucce. Io credo che se si ha qualcosa da dire non conta l’età, non conta la modalità, ma solo il contenuto di ciò che si vuole esprimere. Non trova?”
Matilde girò lentamente lo sguardo verso quell’uomo che mai aveva visto in vita sua: alto, molto alto. Come aveva fatto a non notarlo prima? Sarà stato sicuramente 1.85m. Certo, bello non era, e non aveva neanche i capelli. 
“Li raso sempre. Sa, con questo caldo”, sorrise timidamente: Matilde in modo alquanto maleducato stava fissando la testa dell’uomo.
“Beh, a me gli uomini con i capelli lunghi non piacciono”, si decise la donna, “li trovo così orribilmente sciatti.”
Disse con naturalezza la prima cosa sincera dopo l’arco di mezz’ora. Ora era lei a fissare lui, con fare insistente e caparbio. C’era qualcosa in quell’uomo dallo sguardo luminoso che non la convinceva. Nervoso, era molto nervoso, e non era per via dell’ascensore. No. Aveva mani frementi, gambe lunghissime, asciutte e longilinee, piedi con un grande senso del ritmo e un sorriso ammaliante. Nonostante tutto Matilde era indispettita dalla sua presenza, sembrava  che quello sconosciuto volesse carpirle delle informazioni, come se avesse l’intenzione di rubarle la fantasia, di strapparle la creatività, svuotandola completamente della sua personalità inquieta e beata.
Che sensazione idiota. In fondo, non conosceva neanche il suo nome. Aveva tutta l’aria di un tizio che si chiama Rocco, o forse Enrico, o magari Eugenio. 
“Andrea, piacere”, le tese la mano.
“Matilde, piacere mio”.
La ragazza, ora che aveva preso ad osservarlo più da vicino, sentiva che non riusciva a staccargli gli occhi di dosso: come una calamita il respiro corto e ansante di quel giovane che voleva contenere a tutti i costi la sua esuberanza attraeva Matilde. Lo sconosciuto si allentò leggermente il nodo della cravatta. Era vestito bene, molto elegante, con un completo blu scuro impeccabile, il colletto della camicia bianchissimo, scarpe di vernice alquanto pretenziose e un paio di gemelli da fare invidia. Era visibilmente accaldato ma non una goccia di sudore imperlava il suo viso limpido. Sapeva gestire il fascino e l’onere di quello stile raffinato. Non era l’abito a farla da padrone ma era lui che riusciva a dominare la prepotenza di quegli accessori così importanti.
“E lei invece? Cosa fa nella vita?” chiese di getto Matilde.
“Io sono avvocato, avvocato penalista. Ma possiamo darci del tu? “ sorrise inclinando lievemente la testa.o
“Ma certo, si…”
“Ti è mai successo?”
“Cosa?”
“Di rimanere intrappolata qui dentro. Intendo dire, capita spesso?”
“Di solito prendo sempre le scale, ma a dire il vero so che è successo un paio di volte da quando sono venuta ad abitare qui. I soccorsi però non hanno mai tardato così tanto ad arrivare. Sembra un incubo…io poi sono vagamente claustrofobica…”
“Davvero? Anche mia sorella lo è. Lei si chiama Giulia, ha diversi anni meno di me ma a volte si comporta come fosse mia madre.”
Andrea aveva assunto un tono decisamente confidenziale: si trattava certamente di una di quelle persone che dopo che hanno rotto il ghiaccio si sentono in dovere di coinvolgere l’altro interlocutore in una discussione senza fine, rendendolo partecipe di tutto quel che ruota attorno al proprio misero, meschino universo. In una parola: si dimostrò tremendamente “Logorroico, quanto è logorroico”. Mentre tentava di decifrare il flusso ininterrotto di parole accelerate e affamate, ostacolate nel loro divenire da una R moscia terribilmente irritante, Matilde pensava che in vita sua mai aveva incontrato soggetto più strano di lui. 
“Tu hai fratelli o sorelle Matilde?”
“No, sono figlia unica”
“E com’è la vita da figli unici? Ho sempre pensato che se non avessi avuto le mie due sorelle sarei morto di noia!”
“Ti assicuro che si sta benissimo” asserì perentoriamente Matilde, stizzita, “nessuno che rompe le scatole, nessuno che ti chiede favori, nessuno che ti disturbi durante l’arco della giornata con domande idiote e impertinenti.”
Aveva pronunciato quelle parole semplici colme di un insensato risentimento con una lentezza appassionante. Sembrava che le avesse soppesate, che le avesse scelte con cura per riuscire a ferirlo. Avrebbe voluto, in sostanza, che quelle sillabe si fossero trasformate in tanti piccoli acuminati e dolorosissimi aghi. Matilde non riusciva a dare una spiegazione logica a quel comportamento subdolo, avvertiva solamente l’attrazione repulsiva che la spingeva verso Andrea, quell’uomo egocentrico ed altamente soddisfatto della propria vita. Continuava a parlarle senza sosta, gesticolando con garbatezza, raccogliendo più volte con lo sguardo l’intera figura della ragazza. Matilde, pure così testardamente altezzosa, con quell’aria da falsa sbarazzina e quella malcelata puzza sotto al naso, non sapeva arrendersi all’idea che qualcuno la sorpassasse, no. Lei, in testa a tutto e tutti, schietta fin nel midollo, diretta e sferzante come un vetro rotto, impertinente come la nebbia mattutina di novembre, e così efficacemente sicura di sé e delle proprie qualità, non sopportava l'aria superba dell’uomo.
Dopo qualche secondo di silenzio Andrea esordì con “Che genere di libri scrivi?”
“Romanzi, perlopiù..”
“Di che genere? Nel senso, cosa trattano? Sono romanzi d’amore?”
“Beh, alcuni si, sono romanzi d’amore…altri invece riguardano più la sfera familiare, dei ricordi…”
“I ricordi. Bel problema.”
“Perché?”
“Con i ricordi ho un brutto rapporto. Molto ostico direi. Tendenzialmente non li sopporto, ci faccio a cazzotti dalla mattina alla sera, ma governano la mia vita in modo esagerato. Non si dovrebbe fare troppo affidamento su di essi, non si sa mai quali emozioni ti ricacciano fuori.”
“Ricaccino”, secca.
“Come scusa?”
“Ricaccino. Ricaccino fuori. Senza il Ti”
Uno dei più grandi difetti di Matilde era che, specialmente quando era nervosa, non riusciva a sorvolare su errori grammaticali lapalissiani e grossolani. Era più forte di lei. Manifestava, attraverso l’acidità delle sue osservazioni da maestrina, il forte desiderio di ridimensionare bruscamente l’ego altrui, soprattutto se, a parer suo, non trovava un motivo apparente perché quest’ultimo la prevaricasse.
“Ah, giusto… Hai ragione, a volte si fanno degli errori così…”
“Stupidi.”
“Si…stupidi.”
Matilde continuava a fissare la porta chiusa dell’ascensore, imperterrita, svogliata e con i nervi a fior di pelle, ma allo stesso tempo compiaciuta di averlo zittito almeno per qualche secondo. 
“Ad ogni modo” ricominciò Andrea “credo che i ricordi  siano delle armi a doppio taglio. Nascondono molte insidie ma a volte aiutano a mantenere allenate le emozioni.”
Matilde era sul punto di dire che invece, secondo lei, i ricordi sono entusiasmanti, a prescindere, perché portatori sani di gioie e dolori, che rimangono fissi nel tempo e nella memoria e raccontano la nostra esistenza, la nostra essenza, ma Andrea, quasi leggendole il pensiero, continuò rapido: ”Certo, sono comunque dei buoni conduttori di calore umano, in tutti i sensi”. Questo bastò a Matilde per renderla più tranquilla. “È vero, sono d’accordo con te” sussurrò lei, “io ho dei ricordi che tengo gelosamente custoditi dentro di me, e che forse non riuscirò mai a tirare fuori, a raccontare, ad imprimere in nessun pezzo di carta. A volte è difficile anche per me, che certe cose le faccio per mestiere".
“Mio padre morì il 13 maggio di quattro anni fa. Aveva un tumore al cervello, ci lasciò quasi senza preavviso, tanto feroce fu il male che, ahimè, venne scoperto troppo tardi. Mia madre ancora oggi non si dà pace, è stato un grande amore il loro”. Andrea aveva leggermente socchiuso gli occhi, sforzandosi di cercare qualche immagine o qualche parola che potesse soddisfare la voglia di Matilde di sapere, di indagare nel passato, seppur recente, di un uomo tanto affascinante e tanto irritante al tempo stesso.
“Non ero pronto ad affrontare una situazione del genere, la vita mi ha colto impreparato, preso com’ero a gestire la fine della mia storia con Camilla, indaffarato col lavoro che aveva iniziato a prendere la piega giusta”. Parlava ora a bassa voce, come per raccontare a se stesso quelle cose ben delineate nella mente, un susseguirsi di eventi che avevano tutta l’aria di essere in contrasto tra loro: la morte del padre, poi la rottura del rapporto sentimentale, o forse era avvenuto prima? Andrea, ormai in balìa delle emozioni e dei ricordi, in una mano stringeva ferocemente il manico della cartella e con il palmo dell’altra si accarezzava le labbra, cercando di tamponare i suoni impudenti dei propri pensieri. Matilde manteneva lo sguardo fermo a metà, tra la porta serrata dell’ascensore e il profilo dell’uomo, arrancando per tenere sotto controllo quella situazione assurda.
“Sai, mio padre una volta sparì da casa per tre mesi. O meglio, “ ridacchiò l'uomo, “non sparì, mia madre lo cacciò. L’aveva tradita, si era invaghito di un’altra donna, di poco più giovane di lui. Bellissima donna, per carità. La vidi una volta, mentre passeggiavano in centro, mano nella mano. Ah, puoi immaginare quanta vergogna e quanta pena provai per lui in quel momento.”
“Pena? Perché pena?”
“Perché lui non era realmente innamorato di quella donna e si stava comportando come un quindicenne alle prese con la prima cotta. Andiamo, aveva già la sua bella età.”
“Ma come puoi sapere che non ne fosse realmente innamorato? Te lo disse lui?”
“No, no di certo. Lo capii, anzi lo capimmo tutti, quando dopo tre mesi tornò disperato da mia madre”. Parlava in modo veloce ma cadenzato. Matilde, in quel momento, si sentiva bene, aveva piacere di ascoltare le parole intime e roventi di quello sconosciuto, che poi così sconosciuto non era più. “Quando mia madre aprì la porta e lo trovò in piedi, davanti al cancello, con la valigia in mano, lo guardò e semplicemente gli disse: «Chiudi il cancello quando entri, c’è vento e fa un rumore assordante». Non sto neanche a dirti che in quella settimana di luglio faceva un caldo bestiale e non si muoveva una foglia che fosse una”. Sorrise divertito. “Da quel giorno in poi il loro amore crebbe, si ingigantì fin quasi a riempire tutto l’appartamento! E sai perché dico questo? Perché quando facevano l’amore - e come se facevano l’amore! – riuscivo persino a sentirli dalla cucina!”
Matilde scoppiò in una sonora risata liberatoria. “Se non fosse stato per quel fare spocchioso avrei potuto quasi considerarlo simpatico”, pensò.
“Hai un bellissimo sorriso, Matilde.”
“Grazie, Andrea.”
“E anche degli occhi stupendi. Azzurri?”
“Blu. Come la canzone, Pale blue eyes.”
“Non vado matto per i Velvet Underground, a dirla tutta. Preferisco altri generi musicali.”
“Oh, anche io. Sono semplicemente legata a questa canzone perché mi è stata dedicata da un amico che ora non c’è più”, si affrettò a controbattere la donna. “Io ascolto prevalentemente musica jazz, comunque.”
“Sul serio? Anche io sono un appassionato. Stravedo per Chet Baker e Miles Davis.”
“Caspita, anche io! My funny Valentine è la mia canzone preferita! "
Si erano voltati entrambi: avevano abbandonato quella posizione formale, avevano accorciato la distanza e si stavano guardando per la prima volta negli occhi. Matilde aveva preso a giocherellare con l’anello d’oro bianco che le aveva regalato sua madre e che non toglieva mai, mentre Andrea aveva messo la mano destra in tasca, con studiata disinvoltura da gentleman. Si parlavano concitatamente, scambiandosi opinioni e sorrisi, giudicando melodie e testi, avventurandosi in quel mondo avvincente che è la conoscenza reciproca. Avevano voglia di scoprirsi, anche se Matilde continuava ad essere diffidente, mentre Andrea, consapevole delle perplessità – a lui sembravano tali – della donna, tentava di essere accomodante e piacevole nei limiti della sua vivace presuntuosità.
Andrea le si era avvicinato di qualche centimetro ed ora Matilde poteva percepire il suo calore e il profumo inebriante che quegli occhi verdi emanavano. La donna aveva leggermente abbassato le difese, iniziava a sentirsi più libera, meno costretta entro i limiti del perbenismo e delle buone maniere. Iniziò a raccontargli della sua vita, desiderava ora renderlo partecipe delle sue sensibilità artistiche, gli disse quanto era travolgentemente affascinata dalla musica di Franco Battiato, dallo stile ottocentesco di Antonio Fogazzaro, dalla magica ostilità di libri come “Fosca” o “I turbamenti del giovane Törless” e di quanto si sentisse felicemente anacronistica e forse anche vagamente antiquata. Gli stava aprendo le porte che lo avrebbero presto condotto a quel delicato e feroce territorio che si chiama intimità. Andrea si dimostrava ogni momento più ammaliato dalla personalità eccentrica, solare e marcatamente sfacciata di Matilde, travolto e sedotto da quello sguardo fuggente ma deciso, che a tratti gli incuteva timore. La foga e l’entusiasmo con i quali la donna dimostrava la passione che metteva in tutto ciò che amava fare avevano stregato l’avvocato, lo avevano preso per mano e lo stavano incamminando ad un sentiero impervio si, ma stupendo, colmo di raggi di luce che si facevano prepotentemente spazio tra il buio della radura. Andrea capì che se avesse continuato a percorrere quella strada e avesse avuto il coraggio di oltrepassare la palude in cui sembrava esser caduto inizialmente, avrebbe trovato di sicuro un giardino meraviglioso. Era un continuo tira e molla di emozioni, sensazioni, attese e riprese, un’altalena di spavalderia e umiltà su cui i due sconosciuti continuavano a trastullarsi senza giungere ad un risultato concreto, incerti sul da farsi e tuttavia ansiosi di studiare le mosse l’uno dell’altra. 
Le loro parole, le loro voci, il loro modo di sondare il terreno nemico si confondevano e si intrecciavano in un turbinìo di sguardi indagatori, maliziosi e cristallini, di mani sfiorate, di dita ridenti e frizzanti, di sorrisi umidi. L’atmosfera, carica di promesse e dubbi, simile ad un vestito vecchio, si stava lacerando sotto i colpi massicci di chiodi d’inquietudine alternati a spilli di gioia.
Bastò poco, un gesto repentino del braccio, la frase abbandonata  a metà, morente tra le labbra socchiuse. Lui la attirò a sé, imprimendo vigorosamente il suo desiderio contro la perplessità di Matilde: due bocche, quattro labbra, un solo abbraccio. Era il gesto sbagliato nel momento perfetto. 
Matilde spalancò gli occhi, lo allontanó ferocemente da sé e gli diede uno schiaffo.
In un baleno gli occhi di Andrea ospitarono un grande, grandissimo stupore, un vago senso di colpa e una malcelata punta di fastidio, che, messi insieme, formavano uno splendido mazzo di emozioni contrastanti.
Erano rimasti lì, immobili, uno di fronte all'altra, senza scambiarsi una parola: lui ancora scosso dal bruciore dello schiaffo, lei incredula di aver avuto la forza di reagire a quel modo.
"Dì un po', come diavolo ti permetti?!" 
"Perdonami Matilde, io..."
"Perdono un corno! Chi sei? Chi ti conosce? Che vuoi?!" gli urlò contro la donna.
Pochi attimi di silenzio bastarono a ristabilire quell'abisso, ormai definitivamente incolmabile, che si era adagiato tra di loro.
"Ha senso quel che hai fatto?" sentenziò lui.
"E quello che hai fatto tu? Un senso ce l'ha?!"
"Tu mi piaci, nel caso non fosse chiaro."
"Tu no, in caso non fosse chiaro, e difatti non lo é. Mi indispettisci e basta."
"Senti un po', bambolina, chi ti credi di essere per permetterti il lusso di comportarti a questo modo? Sei forse fatta di cristallo?"
"No, avvocato. Sono fatta della stessa materia di cui è fatta la tua presunzione. Trasparente, impercettibile e riprovevole. Quindi vedi di starmi lontano."
Quel poco di buono che Matilde era riuscita a vedere in un uomo tanto diverso da lei, ma allo stesso tempo così simile, a tratti identico, era svanito nel giro di qualche secondo. Matilde oscillava tra l'essere spietata, sentendosi completamente sicura di sè, e l'essere accondiscendente e accattivante: era una di quelle donne apparentemente tutte d'un pezzo, algide, fredde, prive di emozioni, ed era così che lei, sostanzialmente, amava dipingersi. Il cuore, a volte, avrebbe preferito non averlo, o l'avrebbe barattato molto volentieri con qualcosa di più utile, un altro cervello magari. La sua parte razionale, quella tutta dedita alle spiegazioni logiche, quella parte che tentava ogni volta di trovare un perché anche dove un perché non c'era, proprio perché non doveva esserci, insomma, tutta quella parte puramente scenica, la stava distruggendo piano piano, dolcemente, amabilmente, silenziosamente. La sua sensibilità, il suo romanticismo, vivevano e coltivavano la loro solitudine all'ombra della ragione, quella stessa ragione che puzzava di muffa, di cibo andato a male.
E poi c'era lei, la Matilde irruente, la Matilde passionale, la Matilde forte, quella che viveva di prepotenza, presunzione e arrischiava, osava, si dimenava per ottenere ciò che voleva. E lo otteneva. Ecco, quella Matilde era Andrea. O meglio, Andrea somigliava proprio a quella Matilde lì, quella che non voleva rivali. La prima donna cui nessuno doveva permettersi di rubare il ruolo.
Due Andrea? O due Matilde? 
"Insomma, si può sapere cosa c'è che non va?"
"C'è che hai fatto una cosa assurda, c'è che nessuno ti ha autorizzato ad avvicinarti a me, e c'è che se ti permetti di fare una cosa simile con una sconosciuta...beh, vorrei proprio sapere che tipo di gente frequenti!"
"Che tipo di gente frequento? Ma dico, sei matta o cosa? Chi credi che sia? Un delinquente? Un criminale?!"
"Criminale? Chi ha parlato di delinquenza! Sei solo uno spocchioso maleducato tu!"
"Spocchioso! Oh, da che pulpito! Tu che invece giochi a fare la Susanna Tamaro dei poveri, cosa saresti? Io faccio la scrittrice! Io leggo cose impegnate! Io ascolto solo musica di qualità! Tzé."
Matilde era stata punta sul vivo. Gli occhi le lampeggiarono. Il tono di voce si abbassò bruscamente. Un filo di rabbiosa raucedine.
"Amico, stammi bene a sentire perché te lo ripeterò solo una volta. Non sono il tipo di donna che si fa mettere i piedi in testa, da nessuno. Tantomeno da un avvocatuccio di periferia come te. Hai iniziato TU a parlare, mi hai chiesto TU chi diavolo fossi, ti sei preso TU la libertà di venirmi a rompere, chiaro? Quindi non azzardare supposizioni idiote perché di me non sai proprio un bel niente. E risparmiati quei monologhi alla Joyce, chè la tua vita non mi interessa."
Andrea era evidentemente su tutte le furie. Si teneva a debita distanza da quella "matta" , come l'aveva apostrofata, mantenendo lo sguardo fisso di fronte a sè, certo di aver fatto un gesto opportuno, sentito, appassionato. E perché allora Matilde lo avevo respinto in modo così brutale? Cosa c'era che non andava? Qualsiasi donna avrebbe desiderato - ne era convinto - un uomo deciso, sciolto, sicuro di sè. Sicuro di sè. Eccolo il punto. Lui era fin troppo sicuro di sè. Proprio come Matilde.
L'"avvocatuccio" batteva nervosamente il piede destro a terra, ritmicamente, a voler simulare una nonchalance inadeguata alla situazione. La mano sinistra, nascosta nella tasca dei pantaloni, si muoveva come un topo nella tagliola, si dibatteva tra le quattro mura di stoffa in cui era intrappolata. Prigione adeguata, per evitare gesti improvvisi. Aveva abbandonato la borsa a terra e con l'altra mano, quella libera, si aggiustava la cravatta già perfettamente ordinata, incespicando mentre tentava di appianare pieghe inesistenti. Un lieve scuotimento della testa prendeva il via durante i momenti di silenzio, nei quali le mascelle di Andrea ingaggiavano una estenuante battaglia con i denti: erano tese, rigide e arrabbiate.
Dopo un piccolo attimo di esitazione l'uomo si girò di scatto, guardò il profilo ben definito di Matilde e le disse: "Sei solo una piccola, insignificante bambina viziata, monotona e monotematica. Dovresti allontanarti ogni tanto dalle sudicie carte a cui rimani fortemente aggrappata, o quantomeno dovresti imparare a trarne qualcosa di buono. È inutile che fai l'intellettuale quando non riesci neanche a portare rispetto verso chi ti sta di fronte. Non sei Virginia Woolf."
"Conosci Virginia Woolf?  Caspita, non l'avrei mai detto. Bravo."
In quel "bravo" era racchiuso tutto il sarcasmo di cui Matilde era capace. Andrea si sentì profondamente ferito. Nessuno avrebbe mai osato sottovalutare la sua preparazione, nè tantomeno la sua cultura.
"Ad ogni modo" continuò la donna "sono contenta di non essere come la Woolf. Il suicidio non rientra esattamente nei miei progetti."
"Sai che ti dico?" ringhiò lui "Mi auguro che tu riesca a scovare in qualche anfratto universitario un letterato come te, senza arte nè parte, che vede la luce del sole solo quando filtra dalla finestra, almeno sarai soddisfatta di poterti confrontare con qualcuno alla tua....altezza."
La donna, senza neanche voltarsi a guardare il suo disprezzo, abbozzò un sorriso criptico e scandì bene: "Ti brucia ancora lo schiaffo di prima eh? Ma vedrai, tempo altri dieci minuti e il rossore andrà via."
L'avvocato, senza smettere di fissarla, con i denti sempre più stretti, aveva mosso un passo verso di lei. Matilde si sentiva in difficoltà, osservava con la coda dell'occhio i movimenti incerti e vagamente imbarazzati di Andrea, eppure non si spostava, non provò neanche a girare la testa per guardarlo negli occhi, non voleva. Era intimorita da quella situazione ma l'orgoglio era sempre più forte di qualsiasi altro sentimento, ingombrante come il suo carattere di pietra e fuoco.
Andrea tolse lentamente la mano dalla tasca, si massaggiò il mento e continuò a fissarla con gli stessi occhi increduli di chi vede qualcosa di sensazionale per la prima volta. Il respiro della donna si faceva sempre più affannoso, ma si obbligò ancora a fare un sorriso inquieto, di quelli che ci si permette di fare quando si ha davanti qualcuno a cui si dice "Vedi? Te l'avevo detto". Erano vicini ormai, molto vicini. Se osservati da lontano avrebbero potuto ricordare quasi un quadro del Caravaggio, o un Rubens, tanta era la carica emotiva che li teneva avvinghiati entro quelle quattro mura.
Delle voci nitide si stagliarono di fronte a loro, al di fuori di loro. Qualche secondo per realizzare, pochi attimi, qualche manovra e la porta dell'ascensore si aprì. Spalancata dinanzi a loro, offriva la possibilità di liberarsi dalla trappola. Tre energumeni con una folta barba scura e una tuta da lavoro sudicia attendevano che i duellanti uscissero dall'ascensore.
Matilde, tirando un sospiro di sollievo, si voltò verso Andrea, l'avvocato del diavolo, ed esclamò: "È stato un piacere conoscerla, avvocato. Uno dei più begli incontri degli ultimi 20 anni. Stia bene, e a presto". 
Salì di corsa l'ultima rampa di scale che la separava dal suo appartamento, chiuse frettolosamente la porta alle sue spalle e si appoggiò al muro ansimante. Scoppiò in una brillante risata che le restituì i 10 anni di vita persi in un'ora scarsa di ascensore. Certo, però, ora avrebbe avuto di cui scrivere.
"Ma l'ascensore, l'ascensore no. Mai più."




Giulia Ciarapica 



sabato 4 ottobre 2014

I disegni della stanchezza su carta straccia - racconto breve

La sveglia suonava alle sei, ma il silenzio delle cinque la destava ogni volta. Aveva preso confidenza con quell'ora blanda, le piaceva. Che fuori ci fossero il sole, la pioggia, le nubi, la nebbia, il temporale, quella rimaneva comunque l'ora perfetta: tutto era ancora indecifrabile, promessa dell'avvenire, soffice protezione dalla realtà.
Anche quella mattina Katia aprì gli occhi. La luce si intrufolava tra le fessure delle persiane. Calda e ben augurante, le accarezzava il polpaccio, la coscia, il fianco sinistro.
"Sopravvivere con nonchalance..."
Katia disegnava pensieri di velluto da cucirsi addosso, non voleva ammettere a se stessa che la sua bellezza opaca e dimessa era frutto di una stanchezza senza precedenti, alla quale ogni mattina si abbandonava, cercandone il perché. 
Giorgio riempiva ogni angolo della sua vita accartocciata. 
Arrancava, all'albeggiare di ogni nuovo giorno, nel tentativo di trasformare la spossatezza di vivere in armonia da rassegnazione.
"Sopravvivere con nonchalance... Con nonchalance. Non è poi così difficile..."
Avrebbe voluto vederlo Giorgio, al posto suo. Con la sveglia delle sei che duole più di quando sua madre si faceva negare al telefono, pronta a vestirsi anche se avrebbe voluto uscire completamente nuda, tanto chi se ne frega, la gente non mi è mai piaciuta, neanche quand'ero piccola, neanche quando pensavo che mio padre fosse una gran bella persona. Ecco, le capitava sempre così. Iniziava a pensare a Giorgio e l'attimo dopo lui diventava lei. E lei si ricordava nuovamente di lui. Ma lui ormai era lei. E lei lo aveva assorbito, era stato necessario. Giorgio senza Katia assomigliava a Proust senza la Recherche.
"Sei riuscito a buttar giù qualcosa?"
"No, credo di non avere appetito oggi."
"Credi?"
"Credo...credo di..."
"Dai, su, avvicinati. Allunga il braccio, ti ho portato una brioche."
La mano rugosa di quel novantaduenne appesantito dalla vita e da qualche rimpianto, tremando afferrò la pasta. Il tempo di avvicinarla alla bocca sottile e umida e Katia si era già versata il caffè nero bollente.
"Ti piace?"
Affermativo. L'appetito era tornato, insieme a Katia, insieme alla brioche. E con Katia riaffiorava anche un barlume di tensione, quella spinta vitale che i nonni di ieri tentano di rapire ai nipoti di oggi.
"Sei bello nonno."
"Mh..." sorrise compiaciuto e commosso.
"Davvero, oggi sei più bello di sempre."
Lei si nutriva della sua soddisfazione, le sembrava di riuscire a regalargli qualche attimo di quella vita che gli stava sfuggendo di mano, quella vita che aveva deciso di dare le dimissioni da un corpo consumato dal freddo di novantadue inverni, logorato dal sudore di novantadue estati.
"Tu mi vuoi bene, io lo so."
Continuava a mangiare senza staccare gli occhi dal tavolo. Deglutiva lentamente mentre le dita della mano sinistra tamburellavano sul ripiano di legno chiaro. Pochi capelli bianchi, occhi color notte fonda, qualche onda di tristezza a inumidirli.
"Si, io ti voglio bene nonno. Te ne ho sempre voluto".
“Sopravvivere con nonchalance…” continuava a pensare Katia. Ma come si fa? Non è vero che è facile come dicono. Non per lui.
La parola sopravvivenza aveva le fattezze di un orribile incubo senza fine, che per Giorgio – Katia ne era cosciente – era l’incubo finale, dal quale inevitabilmente prima o poi si sarebbe svegliato, ma il lieto fine non era previsto.
Giorgio emanava un torpore gelido, di morte. Solo le sue mani odoravano ancora di vita, così possenti, con quelle dita grandi e callose, con le quali afferrava tutto con un fremito ardente, benchè incerto. Il suo corpo, ridotto ad un campo di battaglia, trasudava memoria: l’esistenza di un uomo accovacciato ai piedi del coraggio, armato di ingegno e fine intelligenza, mentre affrontava  le tempeste esistenziali e generazionali come fossero soldatini giocattolo.
Adesso, ridotto a brandelli, costretto su una sedia a rotelle, le gambe magre e abbandonate, le narici oltraggiate da un molle tubicino in cui far passare l'ossigeno, non chiedeva altro che una dose massiccia di amore. Che lo scaldasse quando aveva freddo, che gli desse da mangiare quando aveva fame, che lo rincuorasse quando lo sconforto prendeva il sopravvento.
Lei si avvicinò, gli accarezzò la guancia. 
La palpebra del suo occhio sinistro vibrò leggermente al tocco delicato di Katia.
“Vuoi riposare un po’? Ti accendo la tv? Cosa vuoi fare?”
“Stare con te. Non andare via, accarezzami ancora un po’, a nonno tuo."
“Certo, come vuoi tu.”
Starò con te fino a quando fuori non sarà buio, fino a quando non ti addormenterai accantonando per un momento la paura di non esserci più.





Giulia Ciarapica 


La Marchesa Colombi - "Un matrimonio in provincia"

Scritto alla fine dell'Ottocento e ristampato per Einaudi soltanto nel 2006 com una prefazione di Natalia Ginzburg, questo breve ed efficace romanzo della Marchesa Colombi è tanto moderno quanto ironico e divertente. Sarcasticamente intelligente, trascina il lettore nell'aggrovigliarsi di una vicenda che vede protagonista la giovane Denza Dellara, il suo percorso di maturazione e la celebrazione finale di quel "matrimonio di provincia" che tanto aveva disprezzato fino a quel momento.

Per leggere la mia recensione completa potete andare su:


http://www.sololibri.net/Un-matrimonio-in-provincia.html