lunedì 11 gennaio 2016

Video intervista a Carla Magnani, autrice di "Acuto" (Gilgamesh Edizioni)

Buongiorno amici lettori!



Ho deciso di iniziare questa settimana con qualcosa di assolutamente nuovo, e dunque inedito: la prima video intervista all'autore.

Ho avuto un piacevole incontro con Carla Magnani, autrice di Acuto (Gilgamesh Edizioni), un esordio letterario che indaga le emozioni e le esperienze di vita di una donna alle prese con un passato che torna a galla dopo tanto tempo, prepotentemente.

E mentre la storia le stava passando accanto, lei l’osservava con gli occhi di chi vuole caparbiamente restarne fuori”.La Storia, è vero, può essere traditrice, riesce ad entusiasmare e a demolire quasi nello stesso momento, lei, che è padre e madre di noi figli smarriti, un po’ succubi un po’ ribelli. Ma c’è chi con la storia, col tempo che passa e cambia le cose, con le trasformazioni della società e dell’individuo proprio non vuole avere niente a che fare, perché vorrebbe restare lì, fermo nel recinto di sicurezze che si è ritagliato e in cui si è perfettamente ambientato.Stiamo parlando di Elisa, la protagonista di Acuto, romanzo d’esordio di Carla Magnani pubblicato da Gilgamesh Edizioni.  
Questo è un estratto della mia recensione ad "Acuto", che trovate, completa, qui.
Ma per darvi un'idea ulteriore di ciò di cui stiamo parlando e per farvi entrare nel cuore del libro, ho pensato che non ci fosse modo migliore se non quello di rendervi partecipi delle emozioni stesse provate dall'autrice, quando ha ideato il suo primo romanzo.
Di seguito l'intervista completa all'autrice che potete trovare anche sul mio canale YouTube.
Buona visione!

Anna Karenina è ancora viva - di Giulia Ciarapica
Intervista a Carla Magnani

venerdì 8 gennaio 2016

Il Messinese dipinto da Silvana La Spina


“Cercavo una pittura nuova, ma solo adesso capisco che cercavo una pittura che comunicasse l’idea d’una morale”.

L’artista che pronuncia queste parole è Antonio de Antoni, meglio conosciuto come Antonello da Messina, uno dei più grandi pittori siciliani del suo tempo, la cui arte si è dimostrata non solo dura e potente come la vita – di cui è fortemente impregnata – ma anche all’avanguardia.
Silvana La Spina nel suo ultimo romanzo L’uomo che veniva da Messina (Giunti, 2015, pp. 348) ci ha descritto proprio questo personaggio, il Messinese dall’animo inquieto e tormentato, esule ed errabondo per natura, votato alla lussuria dell’esistenza e vittima di una genialità talvolta incompresa.
Non si tratta di una semplice biografia, né ci troviamo di fronte ad un saggio sull’arte di Antonello da Messina, piuttosto il lavoro di La Spina è qualcosa che va oltre il semplice racconto, qualcosa che sfiora, tocca e indaga l’intimità di un artista che, prima ancora di essere artista, è sicuramente uomo.
L’autrice, nel ripercorrere le tappe fondamentali della vita del pittore, dà voce al Messinese stesso, che ora giace, quasi privo di forze, sul letto di morte, in attesa dell’ultimo importante viaggio. Antonello, infatti, è stato un grande viaggiatore, ha percorso l’Italia in lungo e in largo, arrivando addirittura a toccare l’Europa, in particolare la città di Bruges. Ed è proprio ora, al termine della corsa in questa vita terrena, che l’artista in preda agli ultimi spasmi di un delirio che lo riporta con la memoria alla sua infanzia, ai suoi primi esordi, fino all’apice della carriera, decide di confidare i ricordi di una vita al suo primo vecchio maestro, il Colantonio.
“«L’arte della pittura non è soltanto dipingere,» diceste ancora «ma è anche arte della vita. E se non possedete la seconda, a nulla vi serve la prima.»”
È con queste parole che si suggella il rapporto tra il Messinese e Colantonio, rapporto che nasce quando Antonello è ancora giovanissimo e da Messina compie il suo primo viaggio fino a Napoli, la città che lo formerà e che gli svelerà le fondamenta dell’arte pittorica. Ma Napoli sarà anche il luogo in cui Antonello, da un certo momento in poi, si sentirà meno al sicuro, il luogo dove le trame di corte, le invidie tra artisti e la lussuria a portata di mano gli faranno scoprire anche i lati più oscuri della vita.
Antonello capisce fin da subito che la sua vita sarà un peregrinare continuo, e così, concedendo libertà alla sua natura di esule, il Messinese approderà a Roma, approderà nella Mantova del Mantegna e perfino ad Arezzo, dove la penna di Silvana La Spina tratteggerà l’incontro di Antonello con il grande Piero Della Francesca in modo eccellente, fornendo anche un ritratto dell’artista aretino forse inedito ai più, ma certamente di grande spessore.
Ed infine, per Antonello, arriva il momento tanto atteso: prima di recarsi a Venezia e poi a Milano, il maestro compirà il viaggio della vita, se così possiamo definirlo, poiché sarà il viaggio che lo definirà e come uomo e come artista. Il Messinese arriva a Bruges – in compagnia dell’ormai inseparabile compagno di avventure (e sventure) Cicirello – dove non solo proverà l’ardore del vero amore, ma dove soprattutto troverà il segreto della pittura ad olio.
I pittori fiamminghi del Quattrocento dominavano la scena artistica del tempo e Antonello, fors’anche incattivito da un’epoca corrotta e affamata di gloria, è riuscito, al culmine della carriera, a raggiungere quello che per tutti i pittori italiani era ancora un mistero, la pittura ad olio, tecnica scoperta e sperimentata dal grande pittore fiammingo Van Eych. Bruges, tuttavia, per Antonello non sarà solo il porto in cui approderà la sua ossessione per la pittura dei fiamminghi, ma sarà anche la città che battezzerà la sua prima vera nascita di uomo. Qui il Messinese incontrerà per la prima ed unica volta l’Amore, che ha il volto candido e fresco di una giovane donna di nome Griet, figlia bastarda di Van Eych (fanciulla che, per descrizione e per provenienza, ma non per epoca, sembra assomigliare alla Griet di Veermer, protagonista del romanzo di Tracy Chevalier La ragazza con l'orecchino di perla, da cui è stato tratto l'omonimo film).
L’uomo che veniva da Messina ha indubbiamente qualcosa di diverso dalle altre vite romanzate di gradi artisti, e credo che questo qualcosa sia la passionalità, o meglio la verità passionale di cui ogni pagina è investita. Del vero Antonello si sa pochissimo, al punto che – come spiega anche l’autrice – per secoli le sue opere sono state attribuite ad altri, ma una cosa è certa: Silvana La Spina è riuscita non solo a descrivere accuratamente – ma senza mai scadere nell’accademismo di maniera – il periodo storico in cui Antonello è vissuto, ma è soprattutto stata in grado di accompagnare il lettore nell’intimità di un essere umano che è custode di una vita a dir poco tormentata. Tutto questo con uno stile assolutamente chiaro e cristallino, e tuttavia sanguigno, pulsante, proprio come la Sicilia, una terra tanto ostile, tanto aspra, quanto ricca e vivace.
Colpisce soprattutto il rapporto che proprio Antonello ha con la sua Sicilia, così amata e al contempo così odiata:
“È come una malattia, credetemi, mastro Colantonio. Un siciliano non vorrà mai che un conterraneo possa emergere, persino se il campo di cui si occupa è lontanissimo dal suo. È un vizio, un peccato d’origine in tutti i miei conterranei…”.
Il Messinese ha un rapporto ambivalente con la sua terra d’origine, dove nasce dove morirà, nella quale tornerà, anche se spesso malvolentieri – complice huna famiglia che cercherà in tutti i modi di ostacolarlo – ma da cui, comunque, capisce di doversi allontanare per compiere il balzo di qualità. Un’opera come quella di Antonello è destinata a valicare i confini dell’isola e sarà, anche, vittima dell’incomprensione: Silvana La Spina arriva a toccare le corde più intime dell’arte di Antonello, spiegando al lettore, attraverso le parole non dell’arte, ma della vita stessa, quale fosse il frutto geniale di quest’anima in pena. Basterebbe osservare i volti delle Madonne di Antonello, così come quelle del suo Cristo per percepirne la potenza: la scelta dei modelli a cui ispirarsi – prostitute, gente del popolo, a volte veri e propri relitti umani – denuncia la volontà da parte dell’artista di restituire all’arte qualcosa che dovrebbe appartenerle già per natura, l’autenticità.
“Eccolo qui il mio Cristo di dolore, pensavo intanto io, il mio Cristo Crocifisso senza altra colpa che la stoltezza degli uomini. Un Cristo che puzza di sterco e di ignoranza…”
È questo ciò che il grande Antonello desidera, fare un’arte che assomigli quanto più possibile alla vita vera, senza gli artifizi che privano i soggetti dipinti di credibilità: è forse Cristo colui che sedeva su di un trono e impartiva ordini come fosse il nuovo Re di Napoli? No, Cristo è il Messia degli umili, è il pastore che guida il gregge e si nutre della miseria umana.
Silvana La Spina racconta con ardore l’esistenza di un uomo votata all’arte, un’esistenza che è una continua tensione all’infinito, instancabile ricerca della bontà dell’essere umano stesso, dipinta su tela. Ogni personaggio vive di vita propria, sembra quasi fuoriuscire dalla pagina per essere toccato, accarezzato; e se Antonello è l’uomo del peccato, colui che ha peccato con gli occhi, con le mani, con i piedi – ma forse è proprio il peccato la conditio sine qua non per aspirare al vero successo artistico – Griet è la dolce incarnazione del candore supremo, di un amore senza tempo e senza spazio che, forse come tutti i grandi amori, è destinato a rimanere eterno con la sua stessa morte.

“Allora, verso la fine, ho capito che il mio cuore era pieno d’amore per l’umanità… Per questo le mie facce, i miei ritratti sono così diversi da tutti i loro ritratti. Ma non per questo sono un uomo buono. La mia arte è buona, non l’artista”.

giovedì 17 dicembre 2015

A Natale regala un libro (ma anche più di uno, volendo)

Buongiorno a tutti i lettori che mi seguono!



Il Natale è alle porte e non vorrete mica fare brutta figura con i vostri amici e parenti scegliendo il regalo sbagliato?! E visto che regalare libri non è mai sbagliato, qui di seguito vi do qualche piccolo suggerimento.



Iniziamo con una classifica a cui tengo molto, perché diciamoci la verità: riscoprire, regalare e leggere i grandi Classici non solo è un piacere, ma è qualcosa che fa proprio bene a noi stessi! E quindi il motto è: #PrenditiCuraDiTeConIClassici

in questo modo:

1) Thérèse Raquin di Emile Zola - intenso, di forte impatto emotivo, solo per stomaci forti. Tinte cupe per una Francia inedita

2) Storia di una caduta di Stefan Zweig - due racconti del grande scrittore austriaco, che racconta i sentimenti e le paure dell'uomo come mai nessuno prima. Consigliati, tendenzialmente, tutti i suoi lavori

3) Umiliati e offesi di Fedor Dostoevskij - colpi di scena, intricate vicende amorose, inquietudine e malattie si intrecciano e si dipanano seguendo ritmi narrativi ora precipitosi ora trattenuti

4) Oblomov di Ivan Aleksandrovic Goncarov - apoteosi della comicità e della disperazione in un unico struggente capolavoro

5) La signorina Else di Arthur Schnitzler - con Else avrete di fronte un personaggio letterario a tutto tondo, dibattuta tra la fanciulla che è ancora e la donna che incomincia ad essere

6) La morte di Ivan Iljìc di Lev Tolstoj - quando la morte diventa personificazione della bellezza su carta

7) La cugina Bette di Balzac - travolgente storia di intrighi e crimini "privati" nello scenario della Parigi borghese di metà Ottocento

8) Lady Susan di Jane Austen - poche pagine irriverenti, ironiche e scoppiettanti in rigoroso stile Austen. Made in England, of course!

9) Il rosso e il nero di Stendhal - grande affresco dell'epoca postnapoleonica e al tempo stesso appassionato romanzo d'amore

10) Canto di Natale di Charles Dickens - poteva mancare il racconto di Natale per eccellenza?



Ebbene, questa è la lista di consigli letterari che mi sento di darvi per quest'anno. Ma ho deciso che no, non finisce qui. Perché di capolavori da scoprire e ri-scoprire è pieno il mondo ed io qualche dritta vorrei darvela anche rimanendo...a casa nostra!
Tutti per uno, uno per tutti con il motto: #NataleInCasa

così (ve ne consiglio almeno almeno una quindicina):

1) Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa

2) La noia di Alberto Moravia

3) La Storia di Elsa Morante

4) Il marchese di Roccaverdina di Capuana

5) Fosca di Iginio Ugo Tarchetti

6) Malombra di Fogazzaro

7) La casa in collina di Cesare Pavese

8) Un amore di Dino Buzzati

9) La madre di Grazia Deledda

10) Racconti di Alberto Moravia

11) Una donna di Sibilla Aleramo

12) Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi

13) Le due zittelle di Tommaso Landolfi

14) Per le antiche scale di Mario Tobino

15) Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi




Quest'anno il ritorno al grande classico, insomma, non ce lo toglie nessuno! Ma, ovviamente, non possiamo tralasciare la nostra amata letteratura contemporanea.
Molti sono i titoli di romanzi, saggi e noir eccellenti usciti nel corso dell'anno, ma io vi darò soltanto qualche piccolo suggerimento e vi rimando a questo link in cui potrete sbirciare tutte le recensioni dei libri che ho apprezzato nell'arco di questi 12 mesi.


Per gli amanti del giallo/thriller/noir consiglio decisamente Anche gli angeli mangiano kebab di Giuseppe Foderaro (Novecento Editore), due intricati misteri da risolvere per l'investigatore assicurativo Sauro Badalamenti, che si muove in una Milano nero come non l'avete mai vista.
Consiglio, inoltre, il thriller d'esordio di Franco Vanni, Il clima ideale (Laurana), in cui ritroverete anche le atmosfere inquietanti dell'ex Jugoslavia degli anni '90, e Silenzi di porpora di Carlo Romano (Falco Editore), thriller spietato e appassionante, una grande scoperta letteraria.

Per coloro invece che amano letture forti e di grande riflessione consiglio Adua di Igiaba Scego (Giunti), l'esordio letterario di Crocifisso Dentello Finché dura la colpa (Gaffi), Cade la terra di Carmen Pellegrino (Giunti, finalista al Premio Campiello 2015), L'invenzione della madre di Marco Peano (minimun fax, Libro dell'Anno di Fahrenheit), Woody di Federico Baccomo (Giunti), Senza paura di Flavio Pagano (Giunti), Gli anni al contrario di Nadia Terranova (Einaudi) e Etica dell'acquario di Ilaria Gaspari (Voland).

Per chi invece vuole immergersi in un'atmosfera completamente letteraria, fatta di librerie belle - meravigliose librerie indipendenti - e di librai altrettanto belli, consiglio Miracolo in libreria di Stefano Piedimonte (Guanda); se all'ambiente letterario volete aggiungerci anche un pizzico di comicità e di avventura sicuramente L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome di Alice Basso fa al caso vostro.

E ancora, se a tutto questo, se a tutti questi bei libri, se a queste splendide librerie, volete aggiungere anche un pizzico di femminilità, vi consiglio vivamente Il figlio maschio di Giuseppina Torregrossa (Rizzoli), un ritorno al meraviglioso stile del Novecento letterario.
E infine, se di donne vogliamo parlare, non possiamo dimenticare l'ultimo romanzo di Marco Proietti Mancini Il coraggio delle madri (Edizioni della Sera) e Le tre notti dell'abbondanza  di Paola Cereda (Piemme).

Ed infine se volete dilettarvi con qualche bel saggio consiglio L'ora di lezione di Massimo Recalcati (Einaudi), Arte e terrorismo  di Luca Nannipieri (Rubbettino), Il bello dell'Italia di Maarten van Aalderen (Albeggi Edizioni) e Costituzione, Stato e Crisi  di Federico Cartelli.



Questi sono solo alcuni dei titoli di romanzi che ho amato, ma qui potrete trovare la lista completa!

Ragazzi miei, non mi resta che augurarvi buon Natale e ringraziarvi per l'affetto con cui mi avete seguito in questi 12 mesi!



Grazie a tutti, buone letture sotto l'albero e ditemi se avete letto qualcuno dei miei suggerimenti e ovviamente se vi è piaciuto e perché! 

Compiti per Natale ne abbiamo?

Buon pomeriggio amici lettori!



Come sapete ogni tanto vi aggiorno su tutti gli articoli pubblicati negli ultimi mesi, e come non farlo ora che è Natale e che posso cogliere l'occasione di suggerirvi qualche buon libro da leggere e da regalare?

Ebbene, bando alle ciance e veniamo a noi! Si comincia! Dove trovate tutte le mie recensioni? Ovviamente qui, ma anche su Sololibri, Ghigliottina e The Fielder.

Qui l'elenco completo:


GHIGLIOTTINA:

- Intervista a Franco Vanni, per parla del suo romanzo d'esordio Il clima ideale (Laurana editore) - genere thriller/noir

- Articolo sul BOOKCITY MILANO 2015 - un mio resoconto con foto e suggerimenti di lettura all'interno

- Intervista ad Olivia Crosio, per parlare del suo ultimo romanzo La felicità non fa rumore (Giunti)



SOLOLIBRI:

- Se tu fossi neve di Eleonora Sottili (Giunti)

- Woody di Federico Baccomo (Giunti)

- Il clima ideale di Franco Vanni (Laurana Editore)

- La sconosciuta di Mary Kubica (Harlequin Mondadori)

- Etica dell'acquario di Ilaria Gaspari (Voland)

- Le tre notti dell'abbondanza di Paola Cereda (Piemme)



THE FIELDER:

- Oltre la scuola austriaca. Bruno Leoni: il libertario italiano di Riccardo Lucarelli (Eclettica edizioni)

- Il bello dell'Italia di Maarten van Aalderen (Albeggi edizioni)



SE QUESTO E' UN LIBRO:

- Pedro Felipe di Emanuele Tirelli (caracò editore)


- Il figlio maschio di Giuseppina Torregrossa (Rizzoli)

- Silenzi di porpora di Carlo Romano (Falco editore)

- Il coraggio delle madri di Marco Proietti Mancini (Edizioni della Sera)


Qui trovate gli ultimi articoli da novembre ad oggi, ma se volete recuperare anche le recensioni dei mesi precedenti basta cliccare qui!

Qui invece trovate tutte le mie video recensioni: Anna Karenina è ancora viva.

Non mi resta che farvi gli auguri di buon Natale e ovviamente...buone letture! 

FATEMI SAPERE COSA AVETE LETTO E SE VI E' PIACIUTO, MI RACCOMANDO!

mercoledì 16 dicembre 2015

"Pedro Felipe":il gusto dolceamaro della vita vera tra Spagna e Italia


“Io sono semplicemente un imbranato, ecco. Un imbranato che pensa”.



Avete mai incontrato nella vostra vita un imbranato che pensa? E avete mai immaginato a come potrebbe comportarsi nella realtà di tutti i giorni? Certo che se si tratta di un imbranato, sicuramente non ne farà una giusta, ma è pur vero che se è uno che pensa forse collezionerà fallimenti ragionati, o quantomeno consapevoli.
Ebbene, l’imbranato in questione è Pedro Felipe Colella, classe 1981, nato in Spagna – la Spagna del Polve, quella intima e polverosa e affascinante che nulla ha a che vedere con la movida delle grandi città – da genitori italiani e protagonista del primo romanzo di Emanuele Tirelli, Pedro Felipe (Caracó, 2014).
Quello che apparentemente potrebbe sembrare il classico Bildungsroman di un autore al suo primo lavoro, in realtà è qualcosa di più. Pedro Felipe è un giovane dal sangue spagnolo e dall’animo italiano che sarà costretto, insieme a tutta la sua famiglia, ad abbandonare il Polve per Milano, all’incirca all’età di sette anni. Il distacco dalla sua terra, dalle sue radici e dai suoi affetti non è dei più semplici, eppure Milano, con l’andar del tempo, non si dimostrerà poi così brutta come appare. Ma questa città – dai colori decisamente più grigi e più cupi rispetto alle gioiose tonalità spagnole – è legata ad un’idea di fondo sbagliata, o meglio, purtroppo non è l’idea ad essere sbagliata, a volte è proprio la vita. Infatti la famiglia Colella deve trasferirsi a Milano perché la nonna materna Alba è malata, il cancro la sta divorando lentamente. Milano è cosparsa di quella malattia che colpirà presto tutta la famiglia, in senso letterale e in senso metaforico: a mano a mano il cancro colpirà nonna Alba, poi si porterà via zia Letizia e nel frattempo avrà modo di insinuarsi negli animi di chi sopravvive, dei genitori di Pedro, dello zio Carlo, della cugina Marta.
È sotto questa invisibile cupola di malessere che, tuttavia, la vita procede, va avanti e lo fa, più o meno, indisturbata: Pedro cresce, prosegue gli studi e si innamora di Claudia, la figlia del Muchacho – il proprietario del bar dove Pedro passa molte ore in compagnia di un’atmosfera che tanto gli ricorda la sua amata Spagna. Spagna in cui Pedro Felipe può finalmente tornare, ora che è grande, che ha terminato l’università e che vuole una famiglia tutta per sé, insieme alla sua bella compagna. Ma sarà proprio il Polve, una volta che i due giovani vi avranno fatto ritorno, a tradire il suo figlio più fedele, il figlio che ha deciso di lasciare una famiglia ferita dalla morte per inseguire il suo sogno di indipendenza, ripartendo proprio dalle radici, dalla memoria e dal passato. La famiglia malavitosa di Don Jaime, infatti, trascinerà Pedro in un sottile e pericoloso vortice di menzogne e silenzi, in cui le parole perderanno il loro significato emotivo, per ridursi a meri ordini da eseguire nel miglior modo possibile.
Quello di Emanuele Tirelli è un romanzo a tutto tondo, pronto ad abbracciare il lettore e a coinvolgerlo nelle avventure di un anti eroe dei giorni nostri. Perché Pedro Felipe non ha nulla di eroico, questo bisogna dirlo: non è il giovane spagnolo che arriva in Italia e stravolge la sua vita alla ricerca del successo, né tantomeno è il coraggioso uomo obbligato a combattere contro pregiudizi e ipocrisie della modernità – che, a volte, di moderno ha ben poco. Pedro, piuttosto, è un sopravvissuto agli eventi naturali della vita, è uno che esiste e resiste, ma se ne accorge solo quando il puzzle che per tanto tempo ha avuto davanti agli occhi inizia a sgretolarsi.
Se il collante di Pedro Felipe è senza dubbio l’ironia, mista ad una sottile ma incisiva carica emotiva che ben si sposa con l’analisi psicologica dei personaggi e di ciò che ruota attorno ad essi, è bene precisare, però, che la base di tutto il testo è sicuramente il mistero: il mistero dell’esistenza, il mistero di come si riesca a rimanere in piedi quando qualcuno se ne va, di come si possa continuare a respirare quando la morte ci schiaffeggia, il mistero di come si sopravvive nonostante tutto.
In queste pagine intrise di ricordi, di emozioni – manifeste o maldestramente celate – e di un passato che continua a modellare il presente di chi lo abita, è la morte che spinge il protagonista, alla fine, a ragionare sulla vita. La morte come dispetto, come ostacolo che blocca e immobilizza:
“Le due morti si erano portate via tutto quanto. Sì, perché le morti non erano state semplicemente un’assenza atroce. Le morti avevano invitato a casa la malattia”.
Pedro Felipe, nel suo percorso di crescita e di maturazione personale, approda soltanto alla fine a questa riflessione, accorgendosi troppo tardi – forse – dei danni che la perdita degli affetti più cari ha causato nell’intimità della sua famiglia. La morte è stata compagna prepotente dell’esistenza di quel piccolo nucleo familiare, ma a volte Pedro è distratto, Pedro guarda ma non vede, e non si accorge che tutto il mondo attorno a lui aveva già avviato il suo processo di distruzione, prima ancora che le sue orecchie avvertissero il rumore assordante del pericoloso silenzio di cui si era circondato.
Ed ecco il secondo punto chiave del romanzo: le parole. Le parole sono strumento fondamentale per l’uomo, con le parole comunichiamo, dimostriamo qualcosa a chi ci ascolta, prendiamo coscienza di quello che siamo. Pedro Felipe ha scelto, invece, la via del silenzio, ha deciso di non rivelare a Claudia una parte importante della sua nuova vita nel Polve, quella in cui si sono intrufolati i malavitosi del clan di Don Jaime. È così che Pedro finisce per essere seppellito dalla sua stessa scelta, quella del mutismo. C’è egoismo in questa volontà di chiudersi in sé, c’è presunzione di credere che tutto andrà sempre per il verso giusto, anche quando le cose un posto sembrano non avercelo proprio.
“Ecco cosa doveva essere successo. In tutti questi anni mi ero straziato. Mi ero storto nel silenzio di quanto invece avrei voluto dire e l’oppressione si stava facendo avanti dopo tutti quegli anni”.
Emanuele Tirelli si rivela autore dell’individuo, scava, ma con garbo ed eleganza, fino a toccare il fondo dell’animo umano: i suoi personaggi contengono vita e morte nello stesso frammento di esistenza, sono defunti che rinascono sotto le nuvole di Milano o sotto il sole del Polve. Il tratto dolcemente teatrale che Tirelli ha conferito al testo è qualcosa di essenziale, che scaturisce dalla sua natura di drammaturgo e che non poteva non sposarsi alla perfezione con il sentimentalismo di Pedro Felipe. Eppure proprio questo sentimentalismo – venato di una agrodolce testardaggine che conferisce umanità al personaggio – non è mai stucchevole, anzi, sembra strattonare il lettore, quasi a volerlo ricondurre all’autenticità della vita, fatta di piccole cose e grandi entusiasmi.

Descrivendoci, da una parte, una Spagna che con i suoi colori e i suoi sorrisi accoglie sì, ma è anche pronta a tradire, e, dall’altra, una Milano cupa e tormentata, in cui i sogni sembrano volatilizzarsi, mentre lasciano il posto alla dura realtà, Tirelli ci conduce in un viaggio intimo fra due terre a modo loro corrispondenti: con uno stile delicato e ironico, fluttuante ma incisivo, Pedro Felipe diventa il romanzo rivelazione, poiché tratteggia il nuovo volto del classico romanzo di formazione.

lunedì 14 dicembre 2015

Quando il mostro della depressione ci porta all'autodistruzione: "I ricordi non si lavano" di Aurora Frola

Buon pomeriggio a tutti voi lettori,



oggi vi propongo una video recensione per la quale mi sono davvero appassionata. Sto parlando della video recensione realizzata per I ricordi non si lavano  di Aurora Frola (Edizioni della Sera).

Quando si è sporchi dentro, quando si sente di aver toccato il fondo e si arranca per individuare una luce in fondo al tunnel, si avverte la necessità di scomparire, di annullarsi per mettere a tacere il dolore. Sono attimi eterni di disperazione che non concedono tregua al corpo e alla mente: disperazione che si tramuta in tragedia quando la vita è appesa al filo della depressione.

È così che nasce la storia di Angelica, tra una lavanda gastrica e il letto della clinica psichiatrica dove sarà ricoverata, ridotta ormai all’ombra di se stessa, un corpo trasformato in un campo di battaglia, scenario di dolorosi ricordi che non vogliono andarsene via. Angelica è la sofferente protagonista de I ricordi non si lavano di Aurora Frola (Edizioni della Sera, 2012, terza ristampa 2014), pagine accorate, struggenti nella loro forza intrinseca.

Queste erano le parole che avevo utilizzato per introdurvi alla lettura del romanzo della Frola. Romanzo intenso, che ci aiuta a inoltrarci nel mondo spietato della malattia forse più terribile, perché colpisce l'animo umano: la depressione.



Ho cercato di raccontarvi le pagine struggenti del lavoro di Aurora Frola - cercando di collegare anche l'arte materica della Frola pittrice, al suo romanzo - in questa video recensione:





Buona visione e soprattutto buona lettura!

mercoledì 2 dicembre 2015

Quando la vita vince: "Il coraggio delle madri" di Marco Proietti Mancini

“Solo loro, solo le madri hanno coraggio abbastanza da vivere fino in fondo certe felicità”.

Prendete dei fogli di carta, una penna, una matita, qualsiasi cosa, e metteteci dentro tutte le emozioni di una vita: l’angoscia dell’incertezza, il terrore per una guerra che sembra non avere fine, il dolore di chi si vede sottratto l’affetto di una vita, l’amore incondizionato di una madre per i suoi figli, la gioia di ritrovarsi quando si pensava di non esserne più capaci.
Se unite tutti questi elementi, come i puntini di un grande puzzle, otterrete un romanzo che profuma di vita. Stiamo parlando de Il coraggio delle madri di Marco Proietti Mancini (Edizioni della Sera, 2015, pp. 231).
Dopo Da parte di padre e Gli anni belli, Proietti Mancini torna a narrare le esistenze di Benedetto ed Elena, un uomo e una donna stretti in una morsa d’amore e di paura: siamo nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale, una guerra che non perdona e che non lascia scampo ad alcuno; si respira la polvere delle strade italiane, l’aria frizzante della Capitale, la preoccupazione negli occhi e qualche sorriso azzardato, a dispetto di tutto ciò che sta accadendo intorno.
Benedetto, che impareremo a chiamare Bebbe’, deve partire per la guerra, deve andare in Africa, quella terra lontana e impalpabile perfino nei pensieri di Elena, giovane moglie innamorata e madre della piccola Annamaria. A tradire l’amore incorruttibile tra Elinu’ e Bebbe’ ci pensa la guerra, signora vestita dei colori della disperazione e dell’illusione di chi crede di essere sempre dalla parte dei giusti. Prima la Grecia, poi i sei mesi di addestramento per diventare paracadutista ed infine l’Africa. Questo è l’estenuante tragitto di Benedetto, chiamato a combattere una guerra non sua, una guerra che non aveva chiesto né voluto, perché la sua unica battaglia era quella di tutti i giorni, per e con la sua Elena, per e con la sua Annamaria, pochi mesi di respiri e già votata ad un’infanzia di affanni.
Il logorio dei mesi, che poi si trasformano in anni, lontani da casa, non intacca il coraggio di quell’amore così genuino, eppure antico, quasi fosse sempre appartenuto, fin dalla nascita, ad Elena e Benedetto. Benedetto tornerà, Benedetto torna, perché Benedetto non tradisce le promesse del cuore, Elena lo sa; ma l’attesa si trasforma piano piano in angoscia quando, di Bebbe’, le notizie sembrano disperdersi nell’aria torbida e soffocante di Roma bombardata.
“Elena dubiterebbe perfino di se stessa, se non ci fosse questa creatura attaccata alle sue gambe, questa figlia bellissima a ricordarle che bisogna vivere anche se la guerra non finisce mai. È lei a darle il coraggio, perché di tutti gli eroismi quello più grande è il coraggio delle madri, quando c’è una guerra appena fuori dalla porta di casa”.
Il coraggio delle madri è un testo completo, che arriva fino al cuore dell’essere umano, trascinando dentro di sé il vortice delle emozioni che il mondo propone e impone. È un romanzo italiano, in tutto e per tutto, figlio dell’audacia di un autore che ha trovato il modo di raccontare l’uomo, trasformandolo in passione allo stato puro.
L’orrore della Seconda Guerra Mondiale diventa qualcosa di tangibile: i numerosi episodi che descrivono la vita di trincea, lo spettacolo indegno della morte altrui, l’incredulità di dover combattere una guerra di cui non se ne conosce neanche il motivo, vengono narrati come fossero ricordi vivi, ancora pulsanti, che smaniano nella penna dell’autore. Lo struggimento di un corpo abbandonato in mezzo alla sabbia del deserto, ormai ridotto a poco più che una nuvola di uomo, si sposa con la poesia che Proietti Macini dipinge su ogni parola. La morte, così come la guerra, sono spettri di una verità cruda sì, dura fino al midollo, ma sono anche fantasmi descritti con una tale eleganza di sentimento che solo Proietti Mancini è in grado di equilibrare.
Nessun colpo viene risparmiato al lettore, si ha la consapevolezza di scendere in campo con coraggio e dignità. Si resta avvinghiati a Benedetto, ci si aggrappa alle sue parole di speranza e di sconforto, eppure si ha quasi timore di avanzare, di procedere con la lettura, proprio come se il pubblico stesso fosse in guerra, lì, con lui.
Ma la voce dell’Uomo riesce a sovrastare perfino l’assurdità della guerra, e lo fa con poche parole, qualche dialogo, una carezza interrotta dal terrore: Benedetto è stato fatto prigioniero dagli inglesi, non sa quale sarà la sua sorte, non sa se e quando potrà mai riabbracciare Elena, Annamaria, i suoi affetti più cari, ma una cosa la sa, gli si rivela, nitida, attraverso gli occhi del maggiore inglese che lo sta interrogando. Nemici o alleati, inglesi, tedeschi o italiani, tutti sono figli della stessa disperazione: vincitori e vinti, tutti figli di quella stessa inutile guerra, fratelli che combattono l’uno contro l’altro, senza un perché. E se questo è soprattutto un romanzo in cui le vere protagoniste sono le donne, è anche vero che questo è un romanzo dei figli, questi figli dispersi e malconci, succubi di una madre potente e forse, a volte, ingiusta, che punisce anziché consolare.
In queste pagine, Elena, sòra Francesca, Antonia e tutte le donne – grandi e piccole – del romanzo, vivono scolpendo nell’anima i segni indelebili della sorte. Le donne de Il coraggio delle madri muoiono in piedi, soffrono con severità, si aggrappano ai brandelli di vita che raccolgono per strada: perfino Roma, l’Urbe stessa, diventa madre che protegge e che si immola per i suoi figli, ferendosi sotto i colpi delle bombe, ma resistendo fino alla fine, a tutti i costi. Le madri sono coloro che, nel romanzo di Proietti Mancini, hanno la forza di credere ancora nella possibilità futura, sono ventri sacri, inviolabili e comunque eterni, perché a dispetto della morte che le circonda loro continueranno a combattere con la vita che donano, seppelliranno i corpi dei loro figli, dei loro mariti, dei loro fratelli, dando alla luce nuove esistenze.
Con Il coraggio della madri abbiamo la certezza che siamo stati, siamo oggi e saremo per sempre i figli di una madre comune e diversa al tempo stesso, prole di una maternità che governa il nostro destino di uomini, trasformandoci in figli del coraggio, della paura, della guerra e figli di una vita che spesso che non è quella che avevamo previsto.

Come in un film neorealista, proprio come ne La ciociara di Vittorio De Sica, le atmosfere che Marco Proietti Mancini ci descrive sono quelle dei ricordi di un passato recente, che brucia sotto la polvere dei libri di storia e soprattutto nel sangue dell’Italia: questa è la Storia vista con gli occhi di chi l’ha fatta e di chi l’ha subita, una Storia che ha tradito chi la abitava e che continua a logorare chi la racconta. Il coraggio della madri è memoria addolcita dalla lontananza, ma che continua a vivere grazie allo stile incisivo di un autore passionale.
Sono pagine che divorano la vita, che odorano di famiglia, di quotidianità e soprattutto che si affannano alla ricerca della normalità: la normalità ritrovata di Benedetto ed Elena, quella tanto sospirata normalità in cui convergono la sguaiatezza di una risata per strada, il rancore e il dolore per un addio inatteso e lo stupore per la gioia riconquistata.
Proietti Mancini si rivela autore dell’individuo, della semplicità che svela il pathos per la Vita vera, quella autentica, quella che trova la sua voce ne Il coraggio delle madri.