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mercoledì 16 dicembre 2015

"Pedro Felipe":il gusto dolceamaro della vita vera tra Spagna e Italia


“Io sono semplicemente un imbranato, ecco. Un imbranato che pensa”.



Avete mai incontrato nella vostra vita un imbranato che pensa? E avete mai immaginato a come potrebbe comportarsi nella realtà di tutti i giorni? Certo che se si tratta di un imbranato, sicuramente non ne farà una giusta, ma è pur vero che se è uno che pensa forse collezionerà fallimenti ragionati, o quantomeno consapevoli.
Ebbene, l’imbranato in questione è Pedro Felipe Colella, classe 1981, nato in Spagna – la Spagna del Polve, quella intima e polverosa e affascinante che nulla ha a che vedere con la movida delle grandi città – da genitori italiani e protagonista del primo romanzo di Emanuele Tirelli, Pedro Felipe (Caracó, 2014).
Quello che apparentemente potrebbe sembrare il classico Bildungsroman di un autore al suo primo lavoro, in realtà è qualcosa di più. Pedro Felipe è un giovane dal sangue spagnolo e dall’animo italiano che sarà costretto, insieme a tutta la sua famiglia, ad abbandonare il Polve per Milano, all’incirca all’età di sette anni. Il distacco dalla sua terra, dalle sue radici e dai suoi affetti non è dei più semplici, eppure Milano, con l’andar del tempo, non si dimostrerà poi così brutta come appare. Ma questa città – dai colori decisamente più grigi e più cupi rispetto alle gioiose tonalità spagnole – è legata ad un’idea di fondo sbagliata, o meglio, purtroppo non è l’idea ad essere sbagliata, a volte è proprio la vita. Infatti la famiglia Colella deve trasferirsi a Milano perché la nonna materna Alba è malata, il cancro la sta divorando lentamente. Milano è cosparsa di quella malattia che colpirà presto tutta la famiglia, in senso letterale e in senso metaforico: a mano a mano il cancro colpirà nonna Alba, poi si porterà via zia Letizia e nel frattempo avrà modo di insinuarsi negli animi di chi sopravvive, dei genitori di Pedro, dello zio Carlo, della cugina Marta.
È sotto questa invisibile cupola di malessere che, tuttavia, la vita procede, va avanti e lo fa, più o meno, indisturbata: Pedro cresce, prosegue gli studi e si innamora di Claudia, la figlia del Muchacho – il proprietario del bar dove Pedro passa molte ore in compagnia di un’atmosfera che tanto gli ricorda la sua amata Spagna. Spagna in cui Pedro Felipe può finalmente tornare, ora che è grande, che ha terminato l’università e che vuole una famiglia tutta per sé, insieme alla sua bella compagna. Ma sarà proprio il Polve, una volta che i due giovani vi avranno fatto ritorno, a tradire il suo figlio più fedele, il figlio che ha deciso di lasciare una famiglia ferita dalla morte per inseguire il suo sogno di indipendenza, ripartendo proprio dalle radici, dalla memoria e dal passato. La famiglia malavitosa di Don Jaime, infatti, trascinerà Pedro in un sottile e pericoloso vortice di menzogne e silenzi, in cui le parole perderanno il loro significato emotivo, per ridursi a meri ordini da eseguire nel miglior modo possibile.
Quello di Emanuele Tirelli è un romanzo a tutto tondo, pronto ad abbracciare il lettore e a coinvolgerlo nelle avventure di un anti eroe dei giorni nostri. Perché Pedro Felipe non ha nulla di eroico, questo bisogna dirlo: non è il giovane spagnolo che arriva in Italia e stravolge la sua vita alla ricerca del successo, né tantomeno è il coraggioso uomo obbligato a combattere contro pregiudizi e ipocrisie della modernità – che, a volte, di moderno ha ben poco. Pedro, piuttosto, è un sopravvissuto agli eventi naturali della vita, è uno che esiste e resiste, ma se ne accorge solo quando il puzzle che per tanto tempo ha avuto davanti agli occhi inizia a sgretolarsi.
Se il collante di Pedro Felipe è senza dubbio l’ironia, mista ad una sottile ma incisiva carica emotiva che ben si sposa con l’analisi psicologica dei personaggi e di ciò che ruota attorno ad essi, è bene precisare, però, che la base di tutto il testo è sicuramente il mistero: il mistero dell’esistenza, il mistero di come si riesca a rimanere in piedi quando qualcuno se ne va, di come si possa continuare a respirare quando la morte ci schiaffeggia, il mistero di come si sopravvive nonostante tutto.
In queste pagine intrise di ricordi, di emozioni – manifeste o maldestramente celate – e di un passato che continua a modellare il presente di chi lo abita, è la morte che spinge il protagonista, alla fine, a ragionare sulla vita. La morte come dispetto, come ostacolo che blocca e immobilizza:
“Le due morti si erano portate via tutto quanto. Sì, perché le morti non erano state semplicemente un’assenza atroce. Le morti avevano invitato a casa la malattia”.
Pedro Felipe, nel suo percorso di crescita e di maturazione personale, approda soltanto alla fine a questa riflessione, accorgendosi troppo tardi – forse – dei danni che la perdita degli affetti più cari ha causato nell’intimità della sua famiglia. La morte è stata compagna prepotente dell’esistenza di quel piccolo nucleo familiare, ma a volte Pedro è distratto, Pedro guarda ma non vede, e non si accorge che tutto il mondo attorno a lui aveva già avviato il suo processo di distruzione, prima ancora che le sue orecchie avvertissero il rumore assordante del pericoloso silenzio di cui si era circondato.
Ed ecco il secondo punto chiave del romanzo: le parole. Le parole sono strumento fondamentale per l’uomo, con le parole comunichiamo, dimostriamo qualcosa a chi ci ascolta, prendiamo coscienza di quello che siamo. Pedro Felipe ha scelto, invece, la via del silenzio, ha deciso di non rivelare a Claudia una parte importante della sua nuova vita nel Polve, quella in cui si sono intrufolati i malavitosi del clan di Don Jaime. È così che Pedro finisce per essere seppellito dalla sua stessa scelta, quella del mutismo. C’è egoismo in questa volontà di chiudersi in sé, c’è presunzione di credere che tutto andrà sempre per il verso giusto, anche quando le cose un posto sembrano non avercelo proprio.
“Ecco cosa doveva essere successo. In tutti questi anni mi ero straziato. Mi ero storto nel silenzio di quanto invece avrei voluto dire e l’oppressione si stava facendo avanti dopo tutti quegli anni”.
Emanuele Tirelli si rivela autore dell’individuo, scava, ma con garbo ed eleganza, fino a toccare il fondo dell’animo umano: i suoi personaggi contengono vita e morte nello stesso frammento di esistenza, sono defunti che rinascono sotto le nuvole di Milano o sotto il sole del Polve. Il tratto dolcemente teatrale che Tirelli ha conferito al testo è qualcosa di essenziale, che scaturisce dalla sua natura di drammaturgo e che non poteva non sposarsi alla perfezione con il sentimentalismo di Pedro Felipe. Eppure proprio questo sentimentalismo – venato di una agrodolce testardaggine che conferisce umanità al personaggio – non è mai stucchevole, anzi, sembra strattonare il lettore, quasi a volerlo ricondurre all’autenticità della vita, fatta di piccole cose e grandi entusiasmi.

Descrivendoci, da una parte, una Spagna che con i suoi colori e i suoi sorrisi accoglie sì, ma è anche pronta a tradire, e, dall’altra, una Milano cupa e tormentata, in cui i sogni sembrano volatilizzarsi, mentre lasciano il posto alla dura realtà, Tirelli ci conduce in un viaggio intimo fra due terre a modo loro corrispondenti: con uno stile delicato e ironico, fluttuante ma incisivo, Pedro Felipe diventa il romanzo rivelazione, poiché tratteggia il nuovo volto del classico romanzo di formazione.

mercoledì 30 luglio 2014

Massimo Fini e Oriana Fallaci: il ricordo di un carattere dolcemente "impossibile"

Pur non condividendo interamente le posizioni espresse nell'intervista (soprattutto quelle dell'intervistatore), riporto qui di seguito il ricordo di Massimi Fini riguardo Oriana Fallaci (l'intervista è riportata integralmente su www.cristianolovatelliravarinonews.com). Massimo Fini contribuisce al ricordo della giornalista toscana, regalandoci un ritratto di Oriana che, ad ogni modo, ben coincide col suo carattere "impossibile". Rimane comunque il fatto che la Fallaci sia stata, e sempre resterà, una delle voci più esilaranti e geniali del giornalismo italiano.






Domanda: Parlando di chi è riuscito a non scomparire ma è diventato mito, mi ha colpito scoprire in certe sue foto giovanili vedere quanto la Fallaci fosse avvenente e sexy (meno affascinanti gli ambienti vorrei-ma-non-posso delle sue case). Un discorso sul giornalismo italiano non può non partire da lei.


Risposta: “Io l’ho conosciuta e frequentata non più giovanissima, sui quaranta. Era una donna già profondamente segnata dal tempo, però ancora molto affascinante. Io arrivavo all’Europeo dall’Avanti, per me era come traslocare in un mito, tutti questi colleghi che hanno coraggiosamente girato il mondo. Mi dicevo: sarà come assidersi alla tavola rotonda. Invece con mio sbigottimento mi resi conto che l’unica cosa che amavano - o di cui amavano parlare - erano i migliori alberghi, i migliori ristoranti, e le migliori…puttane.”


D: E la Fallaci?


R: “Ecco, con la Fallaci quando andavi a pranzo - allora stava con Panagulis e forse umanamente fu il suo periodo migliore - non avevi bisogno della CNN, tanto era multiforme e catturante l’universo di cose di cui ti parlava..”


D: Infatti qualcuno ha detto che come affabulatrice era quasi meglio che come scrittrice. Poi però ti chiese di scrivere la sua biografia per i lettori che la reclamavano e tu sfornasti un tale capolavoro che lei si ingelosì e ruppe i rapporti con il pretesto di una…virgola.


R: “No, non era gelosia, era una forma di perfezionismo..”


D: Maniacale.


R: “Una forma di perfezionismo. "Il tuo pezzo è bellissimo" mi disse "ma questa virgola fuori posto lo rovina, io la estrarrei come un bisturi estrae un tumore da un corpo perfetto"….Beh, insomma, su un qualcosa di delicatissimo come scrivere all’Oriana la sua vita non le andò bene una virgola.

Lo considerai un complimento immenso.”


D: E a parlarle intimamente?


R: “A parlarle confidenzialmente era un continuo fuoco d’artificio, direi meglio uno scoppio nucleare di aneddoti, ritratti fulminanti, urlacci, intuizioni scorticanti….


D: Come dicevo prima, ancor meglio come affabulatrice che come scrittrice.


R: “Penso che a dirglielo uno avrebbe rischiato la pelle. Non a caso lei parlava di Santa Carta Scritta.

Il testo è tutto, il testo è il Vangelo. Avemmo un bellissimo periodo. Prima che impazzisse.”


D: So che a venire querelata si atteggiava a lesa maestà alla Regina, a Santa Giovanna d’Arco mandata al rogo. Poi però era lei la prima a querelare mezzo pianeta. Persino te, l’ex biografo amico, per un ritratto che le facesti, anche quello bellissimo. Ma non apologetico.


R: “ Ma infatti. Evidentemente ormai non era più in grado di sopportare neanche un alito di vento.

Il mio in realtà era un ritratto dolce, in fondo affettuoso, anche se chiunque di noi non può - oltre le luci - non presentare qualche ombra. È chiaro che non potei non alludere, ad esempio, al suo carattere infernale. Mi fece quasi pena.”


D: Perché?


R: “ Perché in modo artigianale si scrisse lei stessa nella querela la memoria difensiva d’accusa..”


D: Sarà stata una requisitoria terribile.


R: “No perché ormai - povera Orianina- non c’era più, scordava le cose, si dava la zappa sui piedi. Se non fosse morta il processo l’avrei vinto a mani basse. Avrei scritto un libricino, magari un po’ perfido, intitolato "Massimo adversus Oriana", con le esilaranti testimonianze dei testimoni o il grottesco di una udienza rimandata ad anni a venire con l’ Orianina, ormai ridotta al lumicino..”




{...}


D: Ma è vero, tornando alla Fallaci, - il mito è stato talmente incensato che possiamo con affetto soffermarci anche su qualche umana debolezza - che l’Oriana ogni volta che telefonava, ad esempio a Feltri, faceva finta cadesse la linea per farsi ritelefonare e non appesantire la bolletta ?


R: “È verissimo. Sai, era toscana. Non tutti, ma c’è una genìa di toscani avari marci, attaccati allo spillo. Mi diceva Davide Lajolo che quando andava a cena con Curzio Malaparte, che io considero il più grande di tutti…”


D: Concordo. È giornalismo che pur essendo preciso e cronachistico si elèva ad altissima letteratura….


R: “…il conto, con mosse quasi da prestigiatore, a poco a poco Malaparte lo avvicinava al suo piatto dimodochè al povero Lajolo toccava pagare ogni volta. Ma il dato più sconvolgente non è l’ avarizia ,ma la solitudine della Fallaci. Mi chiedo quanto dovesse sentirsi sola per ridursi a telefonare spesso a Vittorio Feltri. “


D: C’è di peggio. Telefonava spesso a Castelli.


R: “Il giudice Caselli?”


D: Eh magari, no l’ex Ministro leghista di Giustizia Roberto Castelli…telefonava a Castelli spessissimo per avere aggiornamenti giuridici sull’islam… con tutto il rispetto, come fonte non mi sembra il massimo..ma la cosa interessante è che gli faceva giurare per iscritto di non rivelare queste sue telefonate! Il mito, alla costruzione del proprio la Fallaci si dedicò fino all’ultimo respiro, non si fa mai vivo.


R: “Finì sola ,solissima, povera Orianina. A proposito di mito penso lo fossero in parte anche le sue osannate interviste politiche - fatte per illuminare più sé che chi intervistava. Io gli ho sempre preferite le prime, quelle agli attori, alla gente di spettacolo.”


D: Ne ricordo una prodigiosa a Pietro Germi, in cui va avanti, e in modo avvincente, per cinque cartelle, solo descrivendo come il regista si rifiutava di rispondere al telefono o di aprire la porta.

In quanto alle altre…giù il cappello ovviamente, ci inginocchiamo, sono nella Storia. Però...però La sua manipolazione - non voglio dire falsificazione -, il suo espediente - non voglio trucchetto -, molti elementi fanno pensare consistesse nell’essere testuale nelle risposte, ma autocelebrativa nelle domande. Insomma, un conto è dire:”Signor Presidente qualcuno ipotizza lei sia duro con l’opposizione", un altro è sbobinare la domanda teatralizzandola in:"Come fa un lurido orrendo sporco dittatore come lei a tenersi l’anima in pace con le galere gonfie di cadaveri ??!”. Nessuno dei testimoni dell’intervista a Khomeini vide il famoso schador rabbiosamente gettato via e nessuno dei testimoni dell’intervista a Kissinger persino ricorda la famosa frase del Cowboy che solitario spiana al popolo la democrazia….a chi smentiva, soprattutto ripeto il tono delle sue domande più che l’intervista ,(in America non a caso c’era chi la chiamava “Oriana the Fallacy””Oriana l’Inganno”) lei dava del farabutto, del mascalzone, del cagasotto, del senza palle, fors’anche del microfallico. Eppure le sarebbe bastato chiosare:”Signori alla Boston University, come tutti sanno, sono conservati sotto vuoto come reliquie i nastri delle mie interviste. Andateveli a risentire, teste di cazzo.” Ma, curiosamente, non lo fece mai. A maggior ragione però giù il cappello alla grande scrittrice.


R: “ Nelle interviste però, non certo nei romanzi. Purtroppo lei fraintese sciaguratamente un consiglio di Curzio Malaparte che aveva intuito il suo talento e che la esortò :”Orianina ricordati che un vero giornalista per essere tale scrive anche dei libri“, ma lui intendeva libri di saggistica non, certo romanzi. Lo stile della Fallaci, in effetti spesso folgorante nelle interviste, nei romanzi diventa stucchevole, melenso…il giornalista non è portato a essere uno scrittore, sono due stili che si elidono.”




D: Tranne clamorose eccezioni come Dos Passos ed Hemingway


R: “Eccezioni appunto.. e poi di scrittori che in fondo hanno forzato il proprio stile per diventare giornalisti. Da noi l’esempio maggiore rimane Dino Buzzati."