venerdì 8 gennaio 2016

Il Messinese dipinto da Silvana La Spina


“Cercavo una pittura nuova, ma solo adesso capisco che cercavo una pittura che comunicasse l’idea d’una morale”.

L’artista che pronuncia queste parole è Antonio de Antoni, meglio conosciuto come Antonello da Messina, uno dei più grandi pittori siciliani del suo tempo, la cui arte si è dimostrata non solo dura e potente come la vita – di cui è fortemente impregnata – ma anche all’avanguardia.
Silvana La Spina nel suo ultimo romanzo L’uomo che veniva da Messina (Giunti, 2015, pp. 348) ci ha descritto proprio questo personaggio, il Messinese dall’animo inquieto e tormentato, esule ed errabondo per natura, votato alla lussuria dell’esistenza e vittima di una genialità talvolta incompresa.
Non si tratta di una semplice biografia, né ci troviamo di fronte ad un saggio sull’arte di Antonello da Messina, piuttosto il lavoro di La Spina è qualcosa che va oltre il semplice racconto, qualcosa che sfiora, tocca e indaga l’intimità di un artista che, prima ancora di essere artista, è sicuramente uomo.
L’autrice, nel ripercorrere le tappe fondamentali della vita del pittore, dà voce al Messinese stesso, che ora giace, quasi privo di forze, sul letto di morte, in attesa dell’ultimo importante viaggio. Antonello, infatti, è stato un grande viaggiatore, ha percorso l’Italia in lungo e in largo, arrivando addirittura a toccare l’Europa, in particolare la città di Bruges. Ed è proprio ora, al termine della corsa in questa vita terrena, che l’artista in preda agli ultimi spasmi di un delirio che lo riporta con la memoria alla sua infanzia, ai suoi primi esordi, fino all’apice della carriera, decide di confidare i ricordi di una vita al suo primo vecchio maestro, il Colantonio.
“«L’arte della pittura non è soltanto dipingere,» diceste ancora «ma è anche arte della vita. E se non possedete la seconda, a nulla vi serve la prima.»”
È con queste parole che si suggella il rapporto tra il Messinese e Colantonio, rapporto che nasce quando Antonello è ancora giovanissimo e da Messina compie il suo primo viaggio fino a Napoli, la città che lo formerà e che gli svelerà le fondamenta dell’arte pittorica. Ma Napoli sarà anche il luogo in cui Antonello, da un certo momento in poi, si sentirà meno al sicuro, il luogo dove le trame di corte, le invidie tra artisti e la lussuria a portata di mano gli faranno scoprire anche i lati più oscuri della vita.
Antonello capisce fin da subito che la sua vita sarà un peregrinare continuo, e così, concedendo libertà alla sua natura di esule, il Messinese approderà a Roma, approderà nella Mantova del Mantegna e perfino ad Arezzo, dove la penna di Silvana La Spina tratteggerà l’incontro di Antonello con il grande Piero Della Francesca in modo eccellente, fornendo anche un ritratto dell’artista aretino forse inedito ai più, ma certamente di grande spessore.
Ed infine, per Antonello, arriva il momento tanto atteso: prima di recarsi a Venezia e poi a Milano, il maestro compirà il viaggio della vita, se così possiamo definirlo, poiché sarà il viaggio che lo definirà e come uomo e come artista. Il Messinese arriva a Bruges – in compagnia dell’ormai inseparabile compagno di avventure (e sventure) Cicirello – dove non solo proverà l’ardore del vero amore, ma dove soprattutto troverà il segreto della pittura ad olio.
I pittori fiamminghi del Quattrocento dominavano la scena artistica del tempo e Antonello, fors’anche incattivito da un’epoca corrotta e affamata di gloria, è riuscito, al culmine della carriera, a raggiungere quello che per tutti i pittori italiani era ancora un mistero, la pittura ad olio, tecnica scoperta e sperimentata dal grande pittore fiammingo Van Eych. Bruges, tuttavia, per Antonello non sarà solo il porto in cui approderà la sua ossessione per la pittura dei fiamminghi, ma sarà anche la città che battezzerà la sua prima vera nascita di uomo. Qui il Messinese incontrerà per la prima ed unica volta l’Amore, che ha il volto candido e fresco di una giovane donna di nome Griet, figlia bastarda di Van Eych (fanciulla che, per descrizione e per provenienza, ma non per epoca, sembra assomigliare alla Griet di Veermer, protagonista del romanzo di Tracy Chevalier La ragazza con l'orecchino di perla, da cui è stato tratto l'omonimo film).
L’uomo che veniva da Messina ha indubbiamente qualcosa di diverso dalle altre vite romanzate di gradi artisti, e credo che questo qualcosa sia la passionalità, o meglio la verità passionale di cui ogni pagina è investita. Del vero Antonello si sa pochissimo, al punto che – come spiega anche l’autrice – per secoli le sue opere sono state attribuite ad altri, ma una cosa è certa: Silvana La Spina è riuscita non solo a descrivere accuratamente – ma senza mai scadere nell’accademismo di maniera – il periodo storico in cui Antonello è vissuto, ma è soprattutto stata in grado di accompagnare il lettore nell’intimità di un essere umano che è custode di una vita a dir poco tormentata. Tutto questo con uno stile assolutamente chiaro e cristallino, e tuttavia sanguigno, pulsante, proprio come la Sicilia, una terra tanto ostile, tanto aspra, quanto ricca e vivace.
Colpisce soprattutto il rapporto che proprio Antonello ha con la sua Sicilia, così amata e al contempo così odiata:
“È come una malattia, credetemi, mastro Colantonio. Un siciliano non vorrà mai che un conterraneo possa emergere, persino se il campo di cui si occupa è lontanissimo dal suo. È un vizio, un peccato d’origine in tutti i miei conterranei…”.
Il Messinese ha un rapporto ambivalente con la sua terra d’origine, dove nasce dove morirà, nella quale tornerà, anche se spesso malvolentieri – complice huna famiglia che cercherà in tutti i modi di ostacolarlo – ma da cui, comunque, capisce di doversi allontanare per compiere il balzo di qualità. Un’opera come quella di Antonello è destinata a valicare i confini dell’isola e sarà, anche, vittima dell’incomprensione: Silvana La Spina arriva a toccare le corde più intime dell’arte di Antonello, spiegando al lettore, attraverso le parole non dell’arte, ma della vita stessa, quale fosse il frutto geniale di quest’anima in pena. Basterebbe osservare i volti delle Madonne di Antonello, così come quelle del suo Cristo per percepirne la potenza: la scelta dei modelli a cui ispirarsi – prostitute, gente del popolo, a volte veri e propri relitti umani – denuncia la volontà da parte dell’artista di restituire all’arte qualcosa che dovrebbe appartenerle già per natura, l’autenticità.
“Eccolo qui il mio Cristo di dolore, pensavo intanto io, il mio Cristo Crocifisso senza altra colpa che la stoltezza degli uomini. Un Cristo che puzza di sterco e di ignoranza…”
È questo ciò che il grande Antonello desidera, fare un’arte che assomigli quanto più possibile alla vita vera, senza gli artifizi che privano i soggetti dipinti di credibilità: è forse Cristo colui che sedeva su di un trono e impartiva ordini come fosse il nuovo Re di Napoli? No, Cristo è il Messia degli umili, è il pastore che guida il gregge e si nutre della miseria umana.
Silvana La Spina racconta con ardore l’esistenza di un uomo votata all’arte, un’esistenza che è una continua tensione all’infinito, instancabile ricerca della bontà dell’essere umano stesso, dipinta su tela. Ogni personaggio vive di vita propria, sembra quasi fuoriuscire dalla pagina per essere toccato, accarezzato; e se Antonello è l’uomo del peccato, colui che ha peccato con gli occhi, con le mani, con i piedi – ma forse è proprio il peccato la conditio sine qua non per aspirare al vero successo artistico – Griet è la dolce incarnazione del candore supremo, di un amore senza tempo e senza spazio che, forse come tutti i grandi amori, è destinato a rimanere eterno con la sua stessa morte.

“Allora, verso la fine, ho capito che il mio cuore era pieno d’amore per l’umanità… Per questo le mie facce, i miei ritratti sono così diversi da tutti i loro ritratti. Ma non per questo sono un uomo buono. La mia arte è buona, non l’artista”.

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